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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2014 alle ore 08:52.
L'ultima modifica è del 23 maggio 2014 alle ore 09:04.

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Accecati dall'orrore dei barconi di morte e miseria che approdano sulle nostre coste meridionali, scordiamo l'importanza economica dell'immigrazione. Bisogna fare invece una distinzione tra la questione umanitaria degli sbarchi clandestini e la questione economica del ruolo degli immigrati nell'attività produttiva. L'una e l'altra riguardano l'Europa e sono temi cruciali in questi giorni di elezioni continentali. Ma mentre nel primo caso il tema è come dividere i costi del dramma umano di profughi espulsi dagli angoli economicamente, socialmente e politicamente più deprivati del globo, nel secondo caso il tema ha a che fare con i nodi fondamentali dell'integrazione economica europea.

Durante la crisi i movimenti di popolazione all'interno dell'Unione sono rimasti elevati (anche se inferiori al 2007). Secondo dati appena resi noti dall'Ocse, nel 2012 925.000 cittadini europei si sono spostati verso un altro paese dell'Unione (il 15% in più dell'anno precedente). La geografia di questi flussi di persone, tante quanti gli abitanti di una città come Bruxelles o come Torino, è dettata da ragioni economiche e non umanitarie ed è mutata radicalmente con la crisi seguendo le diverse fortune dei paesi membri. La Germania ha dunque sostituito la Spagna e l'Italia come meta preferita. E globalmente è ormai la seconda principale destinazione di immigrazione al mondo dopo gli Stati Uniti. Solo nel 2012 ha acquisito nuovi abitanti permanenti pari alla popolazione di Bari o di Nottingham, circa 300.000 persone (da tutto il mondo). Numero che corrisponde esattamente al calo degli influssi in Italia tra il 2007 e il 2011. Prima della crisi (2007) in Italia erano immigrati circa 550.000 individui, nel 2012 solo 250.000. Stesso destino per la Spagna.

Bene e giusto, penserà qualcuno. Con il nostro 13% di disoccupazione e il 25% in Spagna, perché mai aumentare ancora la nostra forza lavoro? Che i migranti vadano in Germania dove invece mancano lavoratori. E finalmente la mobilità del lavoro europea garantirà prospettive anche ai lavoratori dei paesi in crisi.

In verità stiamo assistendo ad un ulteriore elemento di impoverimento relativo del Sud Europa verso il Nord. I flussi di immigrati hanno un impatto economico simile ai flussi di capitale. E come tutti si affannano a cercare investimenti esteri per uscire dalla crisi, così bisognerebbe affannarsi ad attrarre lavoratori esteri. L'incapacità di attrarre nuovi cittadini (come di attrarre capitali) è un segno di crisi economica profonda, non certo un traguardo di nuova prosperità. Le ragioni per questa affermazione sono due.

La prima è che il consenso sull'impatto positivo dell'immigrazione sul paese di ricezione è oramai molto diffuso. Ancora l'Ocse ricorda in un rapporto appena pubblicato come gli immigrati generino ricchezza attraverso diversi canali. Nel mercato del lavoro svolgono mansioni importanti, spesso non in concorrenza con i lavoratori nazionali. Contribuiscono al bilancio pubblico: molti studi evidenziano come gli oneri fiscali e contributivi versati superino i benefici che ricevono (ad esempio Christian Dustmann e Tommaso Frattini per la Gran Bretagna in uno studio del Centro Studi Luca d'Agliano e di University College London). E infine favoriscono la crescita portando nuove competenze e abbassando l'età media della popolazione.

La seconda ragione è che lo squilibrio nella geografia dei movimenti di popolazione è figlia dell'Europa incompiuta, di quel processo di drammatico aggiustamento degli squilibri tra paesi membri attraverso la deflazione e la contrazione fiscale. Se gli squilibri non vengono ridotti attraverso la riduzione dei prezzi relativi (la svalutazione che rilancia l'export) o attraverso compensazioni fiscali tra paesi, l'aggiustamento avviene attraverso un restringimento delle economie in crisi e dunque l'espulsione di forza lavoro. Da noi l'effetto macroscopico non è tanto l'emigrazione degli italiani, anche se i numeri dei movimenti di lavoratori qualificati e non verso l'Europa del Nord iniziano ad essere preoccupanti, ma il calo nel numero di migranti che vengono nel nostro paese. Soprattutto di migranti da nazioni in Europa centro-orientale che rimangono molto più povere di noi.

In quest'ottica, usare la recessione per argomentare una restrizione dei flussi migratori è sbagliato da un punto di vista economico. L'Europa nel suo complesso dovrebbe rafforzare strumenti come la Blue Card che favoriscono la mobilità dei lavoratori. E l'Italia dovrebbe invece lavorare ad una legislazione sull'immigrazione finalmente orientata al mercato del lavoro, ossia che induca l'afflusso di lavoratori stranieri in occupazioni e settori che non possono essere coperte dai nostri lavoratori, evitando che questo processo sia regolato dal caso e dal caos della clandestinità.

barba@unimi.it

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