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Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2014 alle ore 09:15.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:47.

Fra il 1946 e il '47, nell'Italia appena uscita dalla guerra, il partito dell'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini raccolse, come è noto, un considerevole seguito elettorale in chiave anti-sistema. Sfruttava una vasta ondata di disprezzo popolare verso la classe politica, ma soprattutto si giovava del vuoto di potere e dell'incertezza dominante in un'Italia che stava cercando la via della ricostruzione. Alla fine la sconfitta di Giannini coincise con l'avvento della Dc degasperiana come partito egemone. "Partito della nazione" si direbbe oggi. Il 18 aprile del '48 la Dc ebbe oltre il 48 per cento dei voti e per i "qualunquisti" si chiusero tutti gli spazi.
A quel punto Giannini, che pure era tutt'altro che uno sprovveduto, si trovò a non sapere cosa fare. Il suo personale carisma si era infranto contro il nuovo assetto politico che si andava consolidando e un'altra opportunità non si sarebbe ripresentata. Allora tentò di calarsi nel mondo delle manovre politiche e lanciò un ponte verso Palmiro Togliatti, lui che guidava un movimento di destra e aveva il Pci fra i suoi bersagli preferiti. S'intende che la sua base non lo seguì in quella singolare giravolta e la crisi interna si aggravò. Pochi anni ancora e l'Uomo Qualunque, dopo aver vivacchiato ai margini del dibattito politico, si estinse.
Se Beppe Grillo conosce la storia contemporanea, non può ignorare questa singolare vicenda dalla quale avrebbe tanto da apprendere. Perché le analogie con la parabola dei Cinque Stelle sono davvero sorprendenti. C'è il successo a sorpresa (nel 2013), poi la crescita esponenziale delle ambizioni, un leaderismo carismatico ma intollerante, infine l'intoppo elettorale. Quindi l'inizio del declino in coincidenza con la nascita di un nuovo "partito sistema" che si colloca oltre il 40 per cento e tende ad assorbire, manipolandole quando è il caso, le istanze della protesta. Anche Grillo tenta – è la cronaca di queste ore – un approccio verso un personaggio di successo, ossia l'inglese Farage. E anche lui, come il suo antenato politico, sconta una drammatica crisi interna perché i militanti non ne vogliono sapere.
I cosiddetti "grillini" sono di varia provenienza, ma la loro impronta rinvia soprattutto alla sinistra: quella solidale, quella che aveva militato nei partiti antagonisti, quella che giudica il Pd un raggruppamento di destra. Il capo uscito ammaccato dal voto vorrebbe proporre loro un cambio di costume, di mentalità, di schema logico. Non ci riuscirà ed è molto probabile che dal confronto interno nasca un'altra storia, con nuovi protagonisti.
È il destino, bisogna ammetterlo, di tutti i movimenti carismatici che possiedono solo la marcia avanti e non contemplano battute d'arresto. L'idea di trasformarsi in una sorta di partito classico per sfuggire alla crisi, con tanto di alleati, di solito è tardiva e suscettibile di creare rabbia e delusione. Farage oggi come Togliatti nel '48: entrambi provocano un'istintiva repulsione in una base che si ritiene al di là della politica e non intende contaminarsi. Ai "qualunquisti" non piaceva il capo dei comunisti, così come ai "grillini", in cui prevale un'anima di sinistra, non piace il duro Farage. Ma la sostanza non cambia. Renzi al 40 per cento ha davvero bruciato le ali ai Cinque Stelle. Ovvero li ha spinti a destra fintanto che si spaccheranno. E allora una parte di essi servirà a puntellare in Parlamento il nuovo "partito della nazione".
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