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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2010 alle ore 13:14.

Le università italiane e gli enti di ricerca da alcuni anni hanno intrapreso un percorso volto a trasferire verso il mercato gli ingenti investimenti pubblici che risiedono nelle nostre istituzioni accademiche. Un cammino difficile che si scontra con due ostacoli strutturali: l'endemica sottocapitalizzazione di questo mondo nel tessuto economico italiano unito a un gap di competenze sulle tematiche dell'imprenditorialità e delle startup. Trasferimento tecnologico, spinoff aziendali e startup sono attività chiave con cui le università si devono cimentare, pilastri che oggi hanno la stessa dignità dei compiti storici di didattica e ricerca.

La capacità di generare decine di aziende di clamoroso successo rende Stanford non solo una top university, ma anche la Mecca per i migliori talenti imprenditoriali di tutto il mondo. Una delle università dotate delle maggiori risorse finanziarie, provenienti in prevalenza da vendite di azioni, royalties, donazioni degli alumni, programmi congiunti con aziende private spesso fondate da ex-studenti.

Il Premio nazionale dell'innovazione è il precipitato di questi sforzi nell'ambito delle startup. Molto è stato fatto finora: la ricchezza e la varietà dei 60 finalisti lo testimonia. Ma tutto ciò non è più sufficiente. Da una ricerca dell'Istituto Sant'Anna di Pisa che ha censito 804 spin-off universitari, emerge che oltre la metà dei fondatori non abbandona il proprio posto di professore o ricercatore.

Tra essi si celano troppo spesso progetti tesi a finanziare indirettamente la ricerca di base, i cui fondi sono regolarmente erosi dalle riduzioni dei budget pubblici. La fuga dei talenti verso l'estero è tanto impressionante quanto imbarazzante la limitata capacità dell'Italia nell'attrarre studenti dal resto del mondo.

Ma in Italia questo non è un argomento che riguarda l'università e non è un tema generazionale. Non riguarda «i giovani». Questo è il nodo fondamentale che la società deve oggi affrontare nella competizione globale e che deve sciogliere con priorità per scongiurare un declino strutturale del sistema-paese. Perché da questo nodo si collegano effetti di lunghissimo termine sui fondamentali dello sviluppo: imprenditorialità, educazione, innovazione, competitività e capacità di generare occupazione. Nel mercato americano tutti i posti di lavoro creati dal sistema economico negli ultimi 40 anni sono nati da startup, come ha dimostrato uno studio di Kauffman Foundation. In breve, il futuro del nostro sviluppo è una partita che si gioca su questo campo.

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Idee innovative in gara

La competizione. Mai come quest'anno al Premio nazionale dell'innovazione hanno partecipato startup

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Bisogna dare oggi a questi argomenti contenuti e progetti operativi, con visione strategica, risorse adeguate ed esecuzione determinata. E serve farlo in fretta se vogliamo mettere qualche argine al declino della nostra società. Prima che questo si trasformi in una rapida marginalizzazione rispetto a paesi emergenti in pieno boom. I competitor dei nostri studenti oggi sui tetti degli atenei e dei monumenti non sono solo i famigerati americani, cinesi e indiani. I loro coetanei siedono sui banchi delle rispettive università in Brasile, Cile, Messico, Russia, Israele, Singapore, Vietnam. Economie in forte crescita con governi dotati di specifici programmi sull'imprenditorialità e la capital fo\rmation.

In Italia abbiamo tutte le dotazioni di base, la «cassetta degli attrezzi» è completa: materiale umano ricco e copioso, infrastrutture educative, ingenti fondi per ricerca e innovazione nonché per la generazione di impresa e creazione di posti lavoro. Ma non sembra proprio che producano alcunchè di rilevante, troppo spesso sprecati e dirottati in mille progetti incoerenti, gestiti con gli schemi della politica. Nell'innovazione tecnologica e delle imprese, c'è una sola politica che funziona: la «politica del funzioniamo». E se le cose non funzionano c'è solo una cosa da fare: bisogna cambiare strada.

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