Tecnologie Scienza

Digitale e aperto come un libro

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2011 alle ore 16:52.

Alla vigilia di quella che si preannuncia come la scomparsa del vecchio testo di studio, del tradizionale manuale di storia o di geografia, dell'antologia letteraria o anche del sussidiario di scuola elementare, compendio unico per ogni disciplina, ci si interroga su cosa prenderà il suo posto negli zaini degli studenti o sulle lavagne digitali di nuova generazione.
Nuovi testi saranno quelli che docenti e studenti utilizzeranno a breve, per insegnare e per apprendere. Saranno simili a quelli che conosciamo, ma in parte anche molto diversi, se non altro perché la carta non sarà più l'unico supporto su cui poterli leggere.

Se oggi il tema dei contenuti digitali per la didattica è centrale per le case editrici che si accingono a riconvertire i loro cataloghi, da anni se ne è discusso in ambiti specialistici e tra docenti attenti all'innovazione tecnologica. Al centro della disputa c'è sempre stata una questione di fondo: la contesa tra «contenuti chiusi» e «contenuti aperti», ovvero tra un tipo di testualità che ripropone l'assetto tradizionale del libro (seppure arricchito di immagini, audio e video) connotato da percorsi di studio disciplinari rigidamente calibrati sui programmi nazionali o, viceversa, testi flessibili che, puntando sulla caratteristica prima del nuovo supporto, permettono la manipolazione dei contenuti, anche in termini di parziale riscrittura del contenuto stesso.
I docenti chiedono strumenti didattici adattabili; spesso amano costruirsi in proprio i manuali di lavoro, magari avvalendosi della collaborazione degli studenti, secondo una logica da web 2.0 e da user content generation. Del resto la scuola, quella di qualità, anche prima del l'avvento del digitale, ha scritto o riscritto i propri testi, si trattasse di una serie di dispense, piuttosto che di veri e propri volumi ciclostilati e riprodotti artigianalmente.

Nella sedicesima edizione della conferenza Educa Berlin, che si è svolta appunto a Berlino nel dicembre scorso, si è dato grande rilievo alle esperienze di produzione e condivisione di contenuti didattici digitali per la scuola da parte di comunità di docenti. Il caso della Norvegia può risultare emblematico: per iniziativa pubblica si è costituita nel 2006 la Norwegian Digital Learning Arena (Ndla), uno spazio in cui i docenti di scuola secondaria di secondo grado condividono una serie di contenuti digitali pubblicati con Creative Commons license. Uno staff redazionale, composto proprio da docenti, controlla e pubblica il materiale e ne implementa eventuali modifiche in base al feed-back degli utenti. La possibilità di proporre contenuti e di condividerli è da poco offerta anche agli stessi studenti. Le maggiori publisher norvegesi hanno tentato di ostacolare il progetto che riscuote tuttavia molto successo e ha ricevuto nel 2009 l'attenzione dell'Ocse («Beyond Textbooks - Digital Learning Resources as systemic Innovation in the nordic countries»).

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Vecchia di qualche anno è anche l'iniziativa di Merlot , una collezione di risorse costruita e controllata secondo la logica della peer reviewed. Collaborazioni individuali, partner istituzionali e anche gruppi editoriali possono partecipare a questo scambio di testi digitali suddivisi per ambito disciplinare, che ha lo scopo principale di contribuire alla costruzione di una comunità interessata alle nuove tecnologie della didattica.
Potremmo citare ancora la Nation's online library for education and research in Science, technology, engineering, mathematics dedicata tutta ad attività inerenti le materie scientifiche o anche la più nota The Le@rning Federation, che dal 2001, per volontà del Governo australiano è un punto di riferimento per chi si occupa dell'innovazione didattica. L'intento dichiarato dal l'istituzione australiana è quello di aiutare la scuola «a intraprendere la strada di un'istruzione del ventunesimo secolo e a implementare la rivoluzione dell'istruzione digitale».

Difficile è ancora definire la natura dei testi che vi si trovano: con lo stesso termine si indica talvolta una semplice serie di schermate informative corredate di approfondimenti in linea o di java script, mentre in altri casi ci troviamo di fronte a veri e propri corsi che propongono allo studente percorsi formativi completi costituiti da approfondimenti, esercitazioni, lezioni registrate e anche servizi online in cui un docente (non virtuale) risponde ai quesiti posti. È questo il caso dei corsi proposti di recente dal Mit, accessibili e liberi per chiunque voglia seguirli senza la pretesa di nessun riconoscimento o attestato formale, un autoapprendimento nel senso più classico del termine.
Per ora il Mit ne ha pubblicati cinque in versione beta. Essi rappresentano «un significativo nuovo approccio a risorse educative aperte e condivisibili. Denominati "Ocw scholar courses", questi materiali sono destinati fin dall'inizio ad allievi indipendenti che non hanno molte altre risorse disponibili».
Il momento è propizio così per chi abbia voglia di riconsiderare la natura del testo di studio, così congeniale alle logiche del digitale. Perché a scuola si legge e scrive assieme ed è difficile pensare a una sostanziale cesura tra le due attività.

Alessandra Anichini lavora all'Agenzia nazionale per lo sviluppo dell'autonomia scolastica