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Questo articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2015 alle ore 17:17.
L'ultima modifica è del 20 gennaio 2015 alle ore 16:45.

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Travis Kalanick, Ceo di Uber (Afp)Travis Kalanick, Ceo di Uber (Afp)

Uber cambia strategia. Dalla linea aggressiva, improntata alle dichiarazione di guerra a taxi e legislazioni vigenti di mezzo mondo, al ramoscello d’ulivo offerto all’Europa, mercato critico per la società di San Francisco, soggetta - come illustrato in una bella mappa del Wall Street Journal - a numerosi provvedimenti repressivi e sanzionatori. Il ceo Travis Kalanick durante la conferenza «Dld - Digital life design» a Monaco di Baviera ha rilanciato il modello di occupazione iperflessibile “à la Uber” (sul fatto che sia redditizio o meno esistono teorie diverse) dipingendolo come «potente generatore di posti di lavoro», buono a dare una mano nel contrasto alla disoccupazione dilagante e cronicizzata nel Vecchio continente. Addirittura, secondo Kalanick, l’app che incrocia domanda e offerta di trasporto privato potrebbe offrire una fonte di reddito a 50mila nuovi conducenti soltanto nel 2015, «10mila in ogni grande città nei prossimi 4 anni». Togliendo dalle strade 400mila auto.

Il ceo di Uber, in definitiva, ha auspicato «una nuova partnership con l’Europa», che superi i contrasti nati fino ad oggi per effetto delle netta opposizione delle associazioni dei tassisti, protetti da normative piuttosto rigide (studiate, è la tesi di questi ultimi, a tutela dei passeggeri, ndr). Su queste norme la Commissione Europea si è espressa più volte in termini piuttosto negativi. A metà dicembre il portavoce della Commissione con delega ai trasporti ha fatto arrabbiare i taxi sostenendo che Uber è innovativa e ci si dovrebbe aggiornare un po’.

Kalanick, da allora, deve avere capito che non tutti ce l’hanno a priori con lui e ha optato per i toni morbidi. Così, le regole europee, da superate e non degne di essere seguite da Uber (che più volte ha replicato alle ingiunzioni dei tribunali con un atteggiamento del tipo « noi andiamo avanti comunque»), si sono trasformate in articolati di cui «sarebbe facile dire qualcosa di poco rispettosamente negativo» ma che pure, ha ammesso per la prima volta il manager, «hanno una loro ragion d’essere».

Del resto Uber è soggetta ovunque nel mondo a procedimenti legali che la mettono in mora perché gli autisti - persino secondo i tribunali di Taiwan - lavorano senza regolari licenze. Sotto la lente di molte autorità locali è finita anche la copertura assicurativa, nonostante l’azienda abbia sempre fornito una versione rassicurante in materia. In Spagna la app dell’azienda di San Francisco ha smesso di funzionare in attesa del ricorso al divieto assoluto di circolazione imposto da un tribunale che ha dichiarato Uber illegale.

Kalanick, tuttavia, non è tipo da resa facile, tutt’altro. Non si è fermato neppure dopo la polemica che ha minato seriamente la reputazione di Uber quando negli States è esploso il caso dei dossier segreti sui giornalisti più critici. Da allora, va detto, la società americana è riuscita a convincere nuovi investitori, tanto da raccogliere a inizio dicembre nuovo capitale fresco in quantità tale da farle raggiungere l’astronomica valutazione di 41 miliardi di dollari. L’insieme delle vicende, per qualche analista, ha comunque sollevato dubbi e lasciato tracce, ma Uber ha spalle molto robuste, visto che è finanziata dalle più grandi multinazionali del mondo, inclusa Google.

A Monaco domenica Kalanick ha voluto, ovviamente, fare vedere il bicchiere mezzo pieno e ha ricordato che Uber ha consentito di generare l'equivalente di 7.500 posti a tempo pieno a San Francisco, 13.750 a New York, 10mila a Londra e 3.750 a Parigi (dove pure non mancano i guai giudiziari e gli autisti dal 1 gennaio circolano rischiano maximulte). Si capirà nei prossimi mesi se è stato davvero convincente.

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