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Questo articolo è stato pubblicato il 14 maggio 2014 alle ore 07:38.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:34.
Contro i fantasmi del populismo disgregatore dell'Europa, nel settembre 2012 i presidenti del Consiglio italiano, Mario Monti, ed europeo, Herman Van Rompuy, annunciarono addirittura un vertice da tenersi a Roma nel 2013. Non si sa bene in cosa sarebbe potuta consistere questa iniziativa. Sta di fatto che inevitabilmente scivolò nel cassetto delle incompiute e non solo a motivo della crisi politica che deflagrò a Roma pochi mesi dopo.
Nel 2014, a un passo dalle elezioni europee, la lotta al populismo è tornata.
Si teme in generale un'ondata euroscettica e l'Italia, seconda potenza manifatturiera alla spalle della Germania ma titolare di un debito pubblico in rapporto al Pil secondo solo a quello della Grecia, resta sotto sorveglianza speciale anche per questa via. I toni si sono così alzati oltremisura. Martin Schulz, tedesco candidato socialista alla presidenza della Commissione europea, dice per esempio che Beppe Grillo, accreditato dai sondaggi per un ottimo risultato elettorale, ricorda «Stalin o Chavez». Più freddamente, l'autorevole quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) annota piuttosto che cinque partiti che potrebbero contare sul 60% circa dei voti (Mov5Stelle, Forza Italia, LegaNord, Fratelli d'Italia, Lista Tsipras) «sostengono l'uscita dall'euro, un referendum sulla moneta unica o nuovi accordi per restare nell'unione monetaria».
Se schiacciato in una contesa quasi tribale tra oltranzisti dell'ordine europeo e valutario costituito e populisti-disgregatori, il confronto sulle conquiste e sui problemi dell'Europa e dell'euro perde però consistenza e tende all'evaporazione, ancorché verbalmente tumultuosa. Non si ascoltano ragioni, nei due campi avversi. Ad esempio, gli oltranzisti scordano che non un comico presunto dittatore ma l'ex presidente della Commissione europea ed ex premier italiano che assieme a Carlo Azeglio Ciampi traghettò l'Italia nell'euro, Romano Prodi, sostiene oggi che l'aver messo nel 2012 il pareggio di bilancio in Costituzione risponde ad «impulsi suicidi» e rappresenta un «favore fatto a chi comanda a Berlino».
Né fanno breccia altre analisi severe come quella dell'Economist, e non di un qualche foglio di propaganda locale. " Neanche l'Unione europea è un esempio di democrazia", ha scritto il settimanale inglese, tra i critici più implacabili della stagione berlusconiana. "La decisione di passare all'euro è stata presa quasi esclusivamente dai tecnici. I tentativi di dare una legittimazione popolare al Trattato di Lisbona, che rafforza il potere di Bruxelles, sono stati abbandonati quando la gente ha cominciato a votare nel modo sbagliato. Nei giorni più bui dell'euro - è ancora l'Economist ad affermarlo- l'élite europea ha costretto l'Italia e la Grecia a mettere dei tecnici al posto di politici democraticamente eletti. Il Parlamento europeo, che non è riuscito a risolvere il problema del deficit democratico dell'Unione, è ignorato e disprezzato".
Sul fronte opposto si moltiplicano i cultori della tesi per la quale è la moneta unica il male assoluto e l'origine della crisi italiana, come se il debito pubblico che abbiamo cominciato ad accumulare in anni lontani, il declino di produttività sistemica e il deficit cronico di riforme fossero responsabilità dei ruvidi tecnocrati di stanza a Bruxelles. Una tesi falsa ma comoda in tempi di campagna elettorale, e che può sboccare nel "via dall'euro". Per andare dove e in che modo, e a quali costi, non è dato sapere. Ci si appella però alla fuoriuscita salvifica, al chilometro-zero monetario, al piccolo mondo antico delle svalutazioni competitive, sottostimando i rischi letali che una simile avventura comporterebbe.
Ma siamo in campagna elettorale. Non per l'Europa, che pure avrebbe bisogno di cambiare e di tagliare il suo deficit democratico, e che oggi fa la parte della "mosca chiusa in un barattolo, cozzando instancabilmente contro frontiere invisibili, prigioniera delle sue stesse regole e contraddizioni", come ha scritto Yves Mény, presidente della Scuola superiore Sant'Anna di Pisa, sulla rivista "il Mulino".
No, si vota in Italia per l'Europa ma lo si fa rincorrendo obiettivi di politica interna e infilando strumentalmente la moneta unica, che pure di problemi ne ha tanti, nel collo di bottiglia di un sì o un no. Si vogliono in realtà misurare i consensi: quelli del nuovo premier Matteo Renzi, di Beppe Grillo, di Silvio Berlusconi, di Angelino Alfano e così via. Da qui, fatte salve le eccezioni che confermano però la regola, i più svariati annunci e gli impegni programmatici che nulla hanno a che vedere, e fare, con le elezioni europee.
Un'occasione perduta, per di più alla vigilia della presidenza italiana del semestre europeo. L'ennesima prova di una classe politica che del resto sulla stessa appartenenza dell'Italia all'euro ha fornito prove a corrente alternata, senza entrare mai fino in fondo nel merito dei problemi. Nel 2012 tutti "rigoristi" d'acciaio, nel 2013 assai meno rigidi, nel 2014 tutti puntualmente o vagamente eurocritici (anche sugli impegni già assunti e votati a schiacciante maggioranza in precedenza) e comunque più interessati alla "ricaduta" politica domestica dei risultati elettorali. Risultato: il 25 maggio si vota, sì, ma non si sa bene per cosa.
guido.gentili@ilsole24ore.com
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