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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2011 alle ore 14:27.
L'impianto nucleare Fukushima Daiichi, della Tokyo Electric Power, fibrilla per lo tsunami in Giappone, c'è paura per le radiazioni e l'evacuazione in un raggio di 20 km, 300mila sfollati in altre zone, nella sola Minamisanriku sono 10mila i dispersi. Contiamo ancora mille vittime nel maremoto del Pacifico, ma il governo giapponese sa bene che, infine, saranno molte di più.
Le immagini da YouTube sgomentano, le navi trascinate nel gorgo come barchette in un lavandino per gioco da Dei crudeli («scenderemo nel gorgo muti» era la profezia di Pavese), le automobili dei piazzali del «just in time», il modello perfetto di produzione Toyota del niente sprechi, accatastate, perdute per sempre, di nuovo, come in un baloccarsi del destino. I bambini passano serissimi i controlli delle radiazioni, il miracolo tecnologico del Giappone dei treni veloci, del web, dei cellulari è ridotto a chiamarsi con i vecchi telefoni di una volta, ad andare sulle autostrade a un chilometro l'ora, come ha raccontato il nostro inviato, unico testimone del sisma, Carrer.
Le parole, davanti alla forza della natura scatenata contro la comunità dell'uomo, contano nulla. La natura vince e noi contiamo umiliati caduti e danni.
È di nuovo un poeta, Leopardi, a spiegarci la violenza antica del rapporto tra civiltà e pianeta, nel Dialogo della Natura e di un islandese: «Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
Natura. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
Islandese. La Natura?
Natura. Non altri.
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Islandese. Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere».
E prima di uccidere lo scettico Islandese seppellendolo sotto la sabbia, la Natura gli insegna che «la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione» e ribellarsi è folle.
Davanti alla tragedia tsunami, dunque, si alzano voci nobili e comprensibili, che accusano le città popolose, le industrie iperattive, le centrali nucleari che cedono al sisma, lo sviluppo, il progresso, in qualche modo opponendo - non per malafede, ma per smarrimento davanti alla forza del mare - la nostra fatica per vivere meglio, alla brutalità della natura.
Come se un passo indietro, un tornare al mondo pre-industriale, un rinnegare nel nome delle fanfaluche che non vogliono Pil ma «calore umano», ci proteggesse poi dalla furia degli elementi. E come se tutta la filosofia, dal conservatore Hobbes al comunista Engels a Manchester, non concordasse che il bisogno, la fame, il regredire allo «stato di natura» non rendono gli uomini più buoni, al contrario li fanno ferini, spietati.
È giusto, e chi non ha nel suo cuore questa umiltà è un arrogante che il Fato accecherà, guardare con compassione la sciagura giapponese, provare, come la comunità internazionale sta facendo (e stavolta Tokyo dovrebbe essere più aperta che nel 1995 nell'accettare aiuto esterno) a sostenere i soccorsi.
Ma quando, come dopo il Diluvio biblico di Noè, le acque si saranno ritirate, seppelliti i morti, curati i feriti, ricostruite case città e officine, torneremo a vivere, crescere e creare, secondo la irresistibile indole di noi Homo Sapiens. Nel vedere le creazioni del nostro lavoro e del nostro genio spazzate via dal mare, tra i lutti eleviamo una preghiera di umiltà, consci della nostra debolezza. Quando i fratelli giapponesi usciranno dal dolore, avremo invece con loro di nuovo ragione di essere orgogliosi, senza vergogna, per la nostra fatica e le nostre ambizioni. Perché la Natura è forte, e forse immortale. Noi siamo deboli e di certo mortali. Ma della Natura, anche in questa ora di sofferenza, siamo e resteremo i figli e le figlie migliori.
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