Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2011 alle ore 08:13.

My24
La teledipendenza del palloneLa teledipendenza del pallone

Errare è umano, perseverare diabolico. La serie A persevera in un vizio tutto italiano: continuare a vivere di televisione e di diritti tv e non saper camminare sulle proprie gambe, cioè sulla forza del prodotto calcio. La serie A si specchia, come una donna un po' vanesia, all'interno dei propri confini, senza correre oltre. Secondo le stime di StageUp, il campionato che si chiude oggi termina con un giro d'affari in linea con quello dell'anno precedente (1,685 miliardi contro i 1,736 del 2009/2010), ma vede crescere ancora i ricavi derivati dalla tv (57% contro il 52% dell'annata passata).

Dipendenti dalla tv
Malattia antica, quella della tv: dodici anni fa in serie A, i diritti valevano mille miliardi di vecchie lire, oggi circa 800 milioni di euro netti che, dal 1° luglio, secondo quanto previsto dalla legge Melandri, saranno ceduti in modo collettivo e divisi in base a una quota fissa, ai risultati sportivi e al bacino di utenza. Proprio su questo punto, da settimane, la bufera spacca la Lega Calcio e divide presidenti e società. Le cinque big contro le altre 15, Agnelli contro Beretta, Galliani contro tutti. La conflittualità dipende dalla posta in palio: le società di A vivono di diritti tv. Spiega Giovanni Palazzi, presidente di StageUp, una delle società di riferimento nella consulenza sul business dello sport: «La quota della tv sui ricavi totali continua a salire, mentre i leader europei traggono il 30-40% dai diritti media». E il mercato televisivo, in Italia almeno, non può crescere: Mediaset e Sky trasmettono tutte le partite di A e B, mentre, ad esempio in Inghilterra, solo il 40% della Premier League si può vedere tranquillamente sul divano di casa.

Piange il botteghino
Il tutto esaurito davanti alla tv ha reso pigri gli appassionati, la violenza negli stadi e i vincoli della tessera del tifoso hanno fatto il resto: in questo campionato, gli 8,8 milioni di biglietti venduti (erano stati 9,2 milioni nel 2010 ma mancano le partite di oggi al termine) valgono quanto l'annata precedente e cioè il 12% del fatturato totale. E poi, perché andare allo stadio, dove mancano i servizi, dove i seggiolini non sono comodi: fino a quando i club non costruiranno stadi di proprietà (si veda articolo a fianco), non saranno in grado di far lievitare il giro d'affari, e non lo faranno finché non saranno trovate regole semplici per realizzare in project financing queste strutture. Resteranno "nani" rispetto ai competitor europei: senza il fatturato di edifici di terza generazione non si va lontano, il rischio serio è quello di chiusura. Ancor di più ora, con il fair play finanziario imposto dal presidente dell'Uefa, Michel Platini, che vuole portare i 660 club dei 53 campionati più importanti d'Europa a un livello di pareggio finanziario, entro il 2017. Dal 1° giugno, le regole Uefa prevedono che per il primo triennio le squadre non possano accumulare un debito superiore ai 45 milioni di euro complessivi e il debito potrà essere appianato dal presidente, ma solo in cambio di nuove azioni, non come prestito a fondo perduto.

Bilanci traballanti
Intanto, secondo una ricerca di Deloitte, nel campionato 2009/2010 il risultato d'esercizio della serie A è arretrato del 51%, superando i 250 milioni di perdita netta. E nei conti 2010/2011 la situazione non va meglio, anzi. Nei primi nove mesi (bilanci al 31 marzo), il rosso è profondo: la Juventus ha registrato una perdita di 43,4 milioni (11 milioni nel 2009/2010), la As Roma, appena passata sotto il controllo della cordata americana di Thomas DiBenedetto, di 30 milioni (21,764 in tutto l'anno precedente) e la Ss Lazio di 5,58 milioni (1,69 nei dodici mesi passati). E le altre società di serie A, tranne poche isole felici, non ridono. I conti precipitano soprattutto a causa degli insostenibili costi del personale e degli ammortamenti dei diritti alle prestazioni dei giocatori: erodono l'80% del valore della produzione (74% nella stagione 2009/2010). «Dalle nostre analisi emerge uno squilibrio dei costi della gestione corrente, costi che sono strutturalmente superiori al valore della produzione - dice Riccardo Raffo, partner Deloitte -. L'apporto dei capitali da parte dei proprietari delle società ricopre ancora un ruolo determinante per la sostenibilità della serie A». I club non possono più nascondersi, e potranno recuperare denari se la tassazione scenderà e raggiungerà livelli europei: oggi le società della A sono svantaggiate, hanno più costi, meno ricavi.

Sponsor cercansi
L'Annuario delle sponsorizzazioni di StageUp rivela che nel 2009/2010 gli introiti da sponsor in serie A sono scesi dell'1,1% (da 223,4 a 220,9 milioni): è un calo fisiologico dovuto alla crisi economica mondiale, anche se i grandi club sono riusciti a migliorare gli incassi commerciali. Perché la globalizzazione che dilata la competitività offre anche un palcoscenico senza confini per le squadre più titolate. Alle piccole non resta che fare network: «L'azienda Italia ha vinto con i distretti produttivi - conclude Palazzi - e i piccoli club devono copiare questo modello: ad esempio, l'Udinese potrebbe portare con sé i marchi di altre importanti imprese della regione, come i prosciutti di San Daniele o le sedie». Ma manca anche una legislazione ad hoc: siamo il Paese del design e non sappiamo proteggere i marchi che tutti ci invidiano. In fondo, anche il calcio è un marchio, con la sua storia, i suoi giocatori.

Shopping24

Dai nostri archivi

301 Moved Permanently

Moved Permanently

The document has moved here.