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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2011 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 08 agosto 2011 alle ore 08:58.

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Spesso gli italiani riscoprono il loro sentimento di identità nazionale in occasione di importanti vittorie sportive. Basti pensare alle straordinarie emozioni suscitate dai nostri successi dell'82 e del 2006 nei Mondiali di calcio o da quelli della Ferrari in Formula Uno. Ma anche ai trionfi della Valanga azzurra nello sci, di Valentino Rossi nel motociclismo o di Federica Pellegrini nel nuoto, sino alle imprese nel ciclismo, come quando Marco Pantani ha vinto il Giro d'Italia e il Tour de France nel 1998 o Paolo Bettini conquistò l'oro su strada alle Olimpiadi di Atene del 2004.

Nel 2006 anche a chi scrive è capitato di provare l'emozione e l'orgoglio di sentirsi italiano, per di più in terra straniera, grazie a vicende legate allo sport (ma non solo). L'8 luglio avevo raggiunto con la famiglia la Provenza e avevo preso alloggio in un piccolo albergo di Sault, circondata dai campi di lavanda. L'indomani mi attendeva un'impresa importante come cicloamatore: la scalata tre volte nello stesso giorno del Mont Ventoux, da tre versanti diversi.

Questo brevetto, gestito con grande passione da Christian Pic, è denominato "i forzati del Mont Ventoux". Prevede la triplice ascensione in bicicletta, su strada asfaltata, della vetta francese più volte raggiunta dal Tour de France, con partenze da Sault, Bédoin e Malaucène, per 4.443 metri di dislivello e circa 140 chilometri, tra salite e discese. Esiste anche un brevetto dei "galeotti del Mont Ventoux", che oltre alle tre salite citate ne prevede una quarta, da effettuarsi sempre nella stessa giornata ma con la mountain bike risalendo una strada forestale, nel qual caso il dislivello totale si eleva a 6.052 metri.

Il Mont Ventoux, spazzato da venti fortissimi, fino a 1.500 metri è ricoperto da una lussureggiante vegetazione mediterranea, poi diventa deserto e sulla sua cima spicca la sagoma gigantesca della torre-osservatorio. I due brevetti del Mont Ventoux sono stati conseguiti da 3.546 ciclisti di tutto il mondo, tra cui 219 italiani.

Il 9 luglio è il gran giorno. Mi sveglio di buon'ora per partire alla volta del "gigante della Provenza". Potrò così festeggiare i miei 50 anni da poco compiuti in modo degno ma anche consono all'età, senza fretta e particolari pressioni agonistiche, visto che non gareggio più a buon livello da parecchio e sono poco allenato. Mi conforta il fatto che la settimana prima sono riuscito a concludere la Granfondo Fausto Coppi di Cuneo in meno di dieci ore senza un'adeguata preparazione. Dunque un po' di fondo ce l'ho ancora. Mi spaventa solo il vento, che è spesso fortissimo in altitudine, nei pressi del Col de Tempêtes.

Con spirito garibaldino comincio la prima salita alle sei del mattino. Il versante da Sault è il meno impegnativo dei tre. Presenta un dislivello di "soli" 1.180 metri e il percorso è lungo 26 Km. Lasciati i campi di lavanda, prima di entrare nel bosco ho un inaspettato incontro con tre caprioli che in una valletta laterale percorrono, spaventati, un buon chilometro correndomi a fianco. C'è un sole splendido. L'ascensione è agevole fino a che non sbocca a Chalet Reynard. Da qui per arrivare alla vetta bisogna percorrere ancora 6,5 Km: è la parte più dura, con una pendenza che non scende mai sotto il 7,5% e tocca per lunghi tratti il 9-10 per cento. Fortunatamente c'è poco vento.

Arrivato in cima, timbro il mio cartellino e scendo a Bédoin, che si sta svegliando. La cittadina già pullula di cicloamatori giunti da ogni parte del mondo per scalare il Mont Ventoux. Timbro la carta di viaggio al negozio di un ciclista che ha appena alzato le saracinesche e noleggia attrezzature di ogni genere. Quella da Bédoin è l'ascensione più impegnativa ed è il percorso classico del Tour de France: 21,5 Km e un dislivello di 1.610 metri. Dopo la curva di Saint-Estève, la strada si inerpica nel bosco per ben 9 Km con una pendenza media del 9,5% che non lascia respiro fino a quando non si raggiungono gli ultimi 6,5 Km, che sono gli stessi più ostici della prima salita ma che a questo punto sembrano quasi facili.

Arrivato per la seconda volta in vetta mi fermo per una mezz'ora a guardare il panorama; mangio qualche panino e bevo in abbondanza. Nel frattempo molti ciclisti francesi, ma anche belgi, americani e olandesi si sono avvicinati per ammirare la mia fiammante bicicletta Colnago C50 montata con un gruppo Campagnolo Record: due miti del Made in Italy. La loro ammirazione aumenta quando spiego che sto effettuando il brevetto della triplice salita nello stesso giorno mentre essi sono saliti sul monte una sola volta e appaiono provati. L'economista prevale per qualche minuto sul ciclista e spiego alla piccola folla che si è riunita intorno a me, con un certo orgoglio, che il Made in Italy è fatto di innovazione continua e di innumerevoli leadership di nicchia. Colnago è il massimo dei telai da corsa (nel 2011 la casa lombarda ha lanciato la sua ultima creazione, la strepitosa C59) mentre in un decennio la vicentina Campagnolo, grazie al carbonio e a innovazioni continue, ha ridotto il peso degli accessori di una bici da corsa di oltre 1 chilo (considerando insieme ruote, freni, pedivelle, corone, pignoni e cambio).

Gli italiani, come cicloamatori, sono famosi in tutto il mondo. Non solo perché possiedono le bici più belle ma anche perché sono numerosi e affollano le più impegnative corse amatoriali come la Maratona delle Dolomiti, la Nove Colli di Cesenatico, la Marmotte in Francia o la Oetztaler Marathon in Austria. Una nazione che ha così tanta gente disposta a far fatica sulle due ruote non può che essere un Paese di grandi lavoratori e di gente di successo.

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