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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2011 alle ore 13:24.
L'ultima modifica è del 18 settembre 2011 alle ore 13:27.

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Di Guido Tabellini
Nel dibattito su come aiutare l'Italia a uscire dalla crisi finanziaria, vi è un'idea ricorrente: la patrimoniale, o provvedimenti equivalenti. L'idea è particolarmente popolare tra i banchieri. Ciò non sorprende, perché banche e assicurazioni hanno il portafoglio pieno di titoli di Stato.

Un prelievo sulla ricchezza delle famiglie per aiutare lo Stato a far fronte ai suoi debiti, se avesse successo, avvantaggerebbe innanzitutto gli intermediari finanziari che oggi hanno l'acqua alla gola.
Ma le idee si giudicano entrando nel merito, e non in base agli interessi di chi le propone. È davvero una buona idea tassare la ricchezza delle famiglie? Vi sono due modi di concepire un'imposta patrimoniale. Il più suggestivo e popolare è un prelievo una tantum sulla ricchezza, che consenta di abbattere rapidamente e significativamente il debito pubblico. La ricchezza netta delle famiglie italiane è circa cinque volte il reddito nazionale, contro un debito pubblico che è il 120% del Pil.

Perché non risolvere il problema una volta per tutte, e abbattere il debito con un'imposta sulla ricchezza? Grazie alla manovra appena approvata, nel giro di qualche anno saremo vicini al bilancio in pareggio. Se anche il debito pubblico fosse molto più basso, avremmo finalmente raggiunto la sostenibilità.
Il ragionamento è suggestivo, ma superficiale. La ricchezza delle famiglie contiene molte voci, alcune delle quali totalmente illiquide, come i terreni, le scorte di magazzino, i fondi accantonati da imprese e assicurazioni a fronte di impegni verso le famiglie, i crediti commerciali. Altre voci, sebbene liquide come il risparmio postale, sono in realtà detenute da piccoli risparmiatori che difficilmente potrebbero farne a meno.

Depurata da tutto questo, la ricchezza delle famiglie ha dimensioni molto meno esorbitanti. Secondo le stime di Banca d'Italia, nel 2009 la ricchezza più liquida (titoli di Stato e non, azioni quotate e fondi comuni di investimento) ammontava a circa 1000 miliardi, il 68% del reddito nazionale. Non è poco, ma anche applicando un'aliquota media del 30% (che corrisponderebbe a un esproprio molto maggiore sui patrimoni più consistenti, perché sarebbe impensabile un prelievo di queste dimensioni sui piccoli risparmiatori), il debito pubblico scenderebbe dal 120% al 100% del Pil. A queste forme di ricchezza si aggiungono i depositi bancari (650 miliardi), le azioni e partecipazioni in società non quotate (500 miliardi), e gli immobili residenziali posseduti dalle famiglie (il cui valore catastale è di circa 1300 miliardi escludendo le prime case).

Ma queste voci, anche se tassabili, sono illiquide (immobili e partecipazioni) o servono a finanziare i consumi quotidiani (depositi). Anche immaginando un'aliquota media del 10% su queste forme di ricchezza, si raccoglierebbero altri 240 miliardi, pari a circa il 15% del Pil.

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