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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2011 alle ore 07:43.
L'ultima modifica è del 21 dicembre 2011 alle ore 06:39.

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Il plurale dovrebbe già costituire una traccia. Le Marche sono un compendio dell'italianità in una regione-scrigno. Le divisioni in latitudine: Pesaro e Urbino, il Nord che vota a sinistra, e poi Fermo e Ascoli Piceno, il Sud che vira a destra. In longitudine altre fratture, con l'eterna divisione tra città costiere e fascia montana rinfocolate in questi mesi dall'incandescente questione della riorganizzazione ospedaliera.

La terza Italia descritta da Arnaldo Bagnasco è annidata tra le colline marchigiane. Una sequenza di piccole imprese che ecumenicamente hanno colonizzato il nord rosso e il sud bianco prima che la crisi erodesse un modello economico e sociale decantato in Italia e all'estero. Le "Marcheshire", per una volta, mettono d'accordo tutti. Dimenticate i precipizi di corruzione e mala gestio di Lazio e Campania. Qui sono ancora le grandi famiglie imprenditoriali a influenzare il corso degli eventi. I Merloni, prima di tutto.
Non è affatto un caso che da due legislature occupi il posto di governatore Gian Mario Spacca, ex dirigente della Merloni Finanziaria in aspettativa, che si è fatto le ossa da assessore all'Industria e vice presidente della Giunta retta per dieci anni dal magistrato anconetano Vito d'Ambrosio, presidente dal 1995 al 2005. Giudici e manager d'azienda che per sedici anni monopolizzano una delle regioni più industrializzate e virtuose d'Italia qualche indizio lo suggeriscono.

Anche se Pietro Marcolini, assessore tecnico alla Cultura e al Bilancio, docente di Economia all'Università di Urbino e punta di diamante della Giunta Spacca, s'incarica di smentire ragionamenti meccanicistici: «D'Ambrosio è stato un pretore d'assalto e un grande protagonista del volontariato cattolico; Spacca, invece, incarna il modello sociale ed economico di questa regione». Al di là di una politica risucchiata dalle eterne diatribe romane, il sistema regge. E i conti in ordine – pareggio di bilancio nella sanità e nessuna anticipazione di cassa nel 2010 e nel 2011– ne sono la rappresentazione più fedele.
Gli stessi giudici contabili che altrove picchiano duro, qui si devono accontentare di elevare una sola contestazione sul rendiconto regionale 2010: «La spesa corrente arriva ad assorbire una quota dell'89,5% sul lato degli impegni e del 90% sul piano dei pagamenti.

A conferma che la tenuta dei conti è stata ottenuta a discapito della spesa di investimento». Un peccatuccio veniale, dopotutto. Che va di pari passo con la richiesta della Corte dei conti all'amministrazione regionale di redigere un bilancio consolidato che riporti i conti delle poche società in house controllate al 100% dalla Regione. Il messaggio dei giudici contabili è semplice: le Marche possono fare di più. Se queste sono le richieste a una prima della classe, allora il ragionamento si può capovolgere.

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