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Questo articolo è stato pubblicato il 07 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Cosa non funziona nel modello protratto di una istituzione – l'università – che fa della sua autonomia e della sua tradizione una delle ragioni per non mettersi in discussione seriamente? Certamente la convinzione di dover preservare una missione intellettuale aiuta a considerare il "fuori" al più uno spunto, se non un impiccio, rispetto al rigore e alla asetticità della prospettiva disciplinare e curricolare che anima da sempre l'assetto universitario.

Il tipo di istruzione adottato prescinde largamente da interessi mercantili, essendo immaginato come una base indispensabile e un bagaglio strumentale ripulito e consolidato nei decenni, in grado comunque di fornire la chiave per interpretare il mondo.

Che il mondo cambi, e si trasformi oggi più che mai il modo con cui avviene questo cambiamento, è questione che non sembra porsi come essenziale nei vari tentativi di riforma.

Il che incorpora una buona dose di insensibilità al fatto che si avviino a diventare rapidamente obsolete non tanto le conoscenze (come naturale), quanto si pongano problemi rilevanti sul tipo di duttilità mentale necessaria a percepire questi slittamenti.

Ciò che consentirebbe di anticipare le fratture di paradigmi e di abituare gli studenti a collegare nozioni, saperi e pratiche in modo tale da restare attori del flusso e non spettatori irrigiditi.

L'ossessione che sembra percorrere ogni strategia riformatrice attiene per lo più alle modalità con cui preservare una autonomia che, soprattutto, non deve concedere spazi ad altri interlocutori, siano essi portatori esterni di interessi, siano gli stessi studenti, che pure dovrebbero essere il core business di questo sistema.

Questa miopia adotta spesso la variabile "mercato" come un incidente cui sacrificare un po' del rigore con pratiche adattive. Come se fosse possibile esorcizzare le possibili commistioni riconoscendo – quasi sempre in ritardo – che pure qualche maquillage è indispensabile.
Una tecnica un po' gattopardesca per continuare a proporre ancora l'istituzione storica come luogo di preparazione indispensabile rispetto ai canoni di una evoluzione che, per parte sua, tende sempre più a ignorare la tradizione.

Far valere la propria superiorità intellettuale, scambiando il luogo dove si impartisce istruzione come la culla del sistema culturale di un Paese, non aiuta a capire che oggi i luoghi di produzione, scambio e frantumazione delle conoscenze, della loro distribuzione fino a entrare in forme mutanti – prendere, lasciare, modificare, recuperare eccetera – sono ormai plurimi, non presidiabili autarchicamente né affidabili a monopoli.
È qui che il modello universitario rischia di fallire maggiormente, perdendo di presa sul reale e avviandosi ad avvitarsi su se stesso. Apprendere "per che cosa" sta diventando la vera questione, che insidia pesantemente tutta le logiche dell'insegnare "cosa". E rimette in discussione la modalità con cui sono organizzate le nostre università, là dove il sapere non intreccia se non casualmente le altre componenti di un vivere sociale e le "materie" hanno una loro autonoma legittimazione disciplinare.

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