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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2012 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 23 febbraio 2012 alle ore 08:18.

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La situazione presente e le prospettive future delle aziende italiane nel mercato cinese debbono essere esaminate con misurato realismo al fine di non rimanere schiacciati tra eccessive illusioni e pericolose delusioni. Questa constatazione non è l'anticamera del pessimismo, ma al contrario tende fare capire dove e come si possa trarre vantaggio dall'ascesa del gigante asiatico.

A più di trent'anni dalla "politica di apertura e riforme" è infatti possibile trarre alcuni insegnamenti preziosi per le aziende e per l'intero Paese.
In primo luogo bisogna riconoscere che l'Italia aumenta il suo export verso la Cina ma, contemporaneamente, ne diminuisce il suo peso relativo. Le nostre esportazioni migliorano in valore assoluto e la Cina acquista peso tra le nostre destinazioni. È un fenomeno positivo, che deriva sia dal traino della Cina (un Paese che aumenta in modo senza precedenti le proprie importazioni) che dalle iniziative delle nostre aziende (le quali pongono finalmente il mercato cinese tra le loro priorità). Tuttavia questo sforzo non basta a consolidare le posizioni: l'Italia perde quote di mercato rispetto agli altri Paesi. È un fenomeno che gli aumenti in termini assoluti non possono nascondere e che ci deve impegnare ad una presenza più incisiva.

In secondo luogo occorre riflettere sul fatto che la Cina è un grande Paese importatore, ma solo di ciò che le è necessario. Gli acquisti si concentrano non su quello che i Paesi esportatori vorrebbero, ma sui bisogni della Cina. I due parametri spesso non coincidono e, il non averlo compreso, ha alimentato speranze eccessive. La composizione merceologica delle importazioni cinesi è sbilanciata verso due macrosettori: le materie prime e la tecnologia. Le prime le consentono di mantenere il suo immenso apparato produttivo; la seconda è lo strumento per migliorarlo. Energia, minerali e materie prime alimentari servono per far crescere la grande "fabbrica del mondo", un ruolo conquistato con decenni di risparmi ed investimenti. La Cina con molta rapidità si sta ora rapidamente affrancando da una vocazione quantitativa della crescita. Per questo ha bisogno di tecnologie sempre più innovative e sofisticate. Ormai l'obiettivo primario è quello di elevare il livello delle strutture produttive, riducendo progressivamente il ruolo delle lavorazioni esclusivamente "labour intensive".

Sono invece più modeste, seppure con grandi prospettive di crescita, le importazioni di beni di consumo. La Cina ha smentito le facili previsioni di chi la considerava subito pronta ad aprirsi a stili di vita differenti, da raggiungere attraverso l'acquisizione di prodotti stranieri. I paesi specializzati nei beni di consumo, e tra questi principalmente l'Italia, soffrono ancora della scarsa apertura del mercato. Una miscela di resistenze culturali, alti prezzi dei prodotti importati, lentezze nella distribuzione, nazionalismo dei consumi, ha finora privato l'industria italiana di uno sbocco commerciale che invece le era stato più rapido verso altri paesi. Fa eccezione a questa impasse il comparto del lusso, del quale la Cina rappresenta il secondo mercato mondiale. Ironicamente, il lusso si unisce a petrolio e macchinari: la Cina ne acquista perché non ne ha e la sua domanda è già sostenuta. Naturalmente occorre lavorare per essere in prima linea quando la nuova domanda dei beni di consumo comincerà ad esprimersi in grandi quantità, come è già il caso del vino dove tuttavia il mercato di importazione vede come protagonisti iniziali soprattutto i francesi

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