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Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2012 alle ore 22:24.

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Nel 2050 la Terra arriverà a 9 miliardi di abitanti (dai circa 7 miliardi oggi), il 70% dei quali vivrà in aree urbane. Si stima che occorrerà un incremento del 70% nella produzione di cibo per soddisfare le necessità della popolazione mondiale, che ad oggi registra 925 milioni di persone che non hanno accesso a risorse alimentari sufficienti. Sarà in grado l'attuale modello economico di fornire risposte adeguate e sostenibili a queste esigenze? Oppure sono necessarie vie alternative che tengano in considerazione anche l'impatto ambientale dell'attività umana e i cambiamenti nelle abitudini alimentari diffuse nei Paesi in via di sviluppo? Può, insomma, la decrescita rappresentare un'opzione sostenibile per l'industria agroalimentare? Di questi e altri temi si è parlato nei giorni scorsi al primo webinar 2012 organizzato dal Barilla Center for Food and Nutrition, un centro di pensiero e proposte dall'approccio multidisciplinare che affronta il mondo della nutrizione e dell'alimentazione mettendolo in relazione con le tematiche ad esso correlate: economia, medicina, nutrizione, sociologia, ambiente. Fra i relatori c'erano Peter A. Victor, professore di Environmental Studies, presso la York University di Toronto e Philippe Aghion, Robert C. Waggoner professor of Economics, alla Harvard University.

Il primo si occupa da 40 anni dell'impatto dei modelli di sviluppo economici sulla sostenibilità e da tempo sostiene che il paradigma classico non è più sostenibile a causa dell'accentuazione delle disuguaglianze tra Paesi ad alto e basso reddito, dei forti impatti ambientali, della crescente scarsità di risorse. «La crescita ha portato enormi vantaggi all'umanità, ma negli ultimi 20-30 anni ha creato notevoli diseguaglianze sociali, non ha risolto i problemi della povertà e ha portato più instabilità nel sistema, come dimostra la recente recessione», dice Viktor in questa intervista esclusiva al Sole 24 Ore.

Il professore, teorico della decrescita, sostiene una teoria che prevede di abbassare il debito pubblico, mantenere l'occupazione, ridurre la povertà e diminuire le emissioni inquinanti. Il tutto grazie a un modello di sviluppo non necessariamente fondato sulla crescita economica. La sua opera più recente si intitola non a caso 'Managing without growth. Slower by design, not disaster'. In questo volume Viktor contesta la priorità dei paesi ricchi di considerare la crescita come un obiettivo dominante della politica economica: «Dobbiamo fare un passo indietro, ridurre la crescita a cui siamo abituati, perché stiamo caricando il pianeta di un onere non più sostenibile». Il professore non è contro la crescita in generale, bensì contro questo tipo di crescita: «Quando parliamo di crescita parliamo essenzialmente di aumento del prodotto interno lordo: il Pil è diventato l'obiettivo numero uno di tutti i governi del mondo. Ma la crescita del Pil sappiamo benissimo che non corrisponde necessariamente a un aumento della felicità e del benessere e non si correla bene neanche con un'aspettativa di vita più lunga».

Viktor ci tiene poi a rassicurare quanti temono gli effetti della decrescita: «Io non dico affatto che bisogna tornare indietro, ad un mondo di privazione, alla perdita delle comodità acquisite, a un ritorno ad una società primitiva che nega il valore della tecnologia. Voglio però che alla tecnologia non sia attribuito un ruolo eccessivo». L'obiettivo a cui guarda l'esperto di studio ambientali è lo Stato di equilibrio, un'entità in grado di «garantire un tenore di vita migliore senza far leva sugli strumenti della crescita tradizionale: profitti, ricavi, Pil». La decrescita è appunto il percorso che ci può portare a questa situazione di equilibrio.

Tesi che non trova naturalmente concorde Philippe Aghion. Che controbatte: «Mi rendo conto che nei periodi di crisi ci sia la tentazione di dire, "dobbiamo smettere di crescere", "bisogna fermare gli scambi commerciali" e così via. Invece io dico che è proprio in questi momenti che non bisogna fermare la crescita, che diventa anzi un fattore in grado di gestire meglio le transazioni demografiche come quella in atto. Ridurre la crescita, in queste fase è a mio avviso contro-producente», afferma il professore che assieme a Peter Howitt ha sviluppato il cosiddetto Paradigma schumpeteriano basato sulla teoria della crescita e dell'innovazione in campo economico. Secondo questo paradigma la concorrenza riduce le rendite post-innovazione dell'industria innovatrice, ma riduce ancora di più le rendite dell'industria non innovatrice. L'innovazione diventa dunque il meccanismo con cui un'impresa può liberarsi dai vincoli della concorrenza della rivale tecnologica. Innovazione quale fonte di ricerca e sviluppo (imprenditori motivati dall'innovazione perché poi hanno un vantaggio competitivo), ma anche come "rottura creativa" (le nuove tecnologie che sostituiscono le vecchie).

Aghion sembra assumere una linea equidistante dalle diverse posizioni economiche: non abbraccia la linea keynesiana che si pone l'obiettivo di sostenere la crescita anche con un massiccio intervento pubblico sulla spesa, ma nemmeno condivide le posizioni di chi auspica un risanamento ad ogni costo del debito pubblico. La sua idea è di riuscire ad introdurre politiche fiscali anticicliche, cioè politiche che aumentano il deficit pubblico durante le recessioni e lo riducono durante le fasi positive. Secondo Aghion «c'è bisogno di uno 'Stato intellegente' che interviene nei settori strategici (puntando ad esempio sull'istruzione di qualità) con politiche industriali intelligenti che creano le condizioni alle imprese per essere competitive. Uno Stato che misura i propri investimenti, monitorando le spese per evitare gli sprechi. Insomma uno 'Stato smart' che mette in atto politiche anticicliche, come hanno fatto alcuni paesi europei, Germania e stati scandinavi in testa». Paesi, questi, favoriti in partenza da bilanci positivi. Non certo come quelli di acuni paesi periferici di eurolandia che rischiano di mandare in crisi l'intera Unione. Unione che secondo alcuni avrebbe ormai messo il peggio alle spalle. Aghion su questo è abbastanza pessimista: «Non vedo proprio come si possa dire che il peggio è passato. Non sappiamo ancora che fine farà la Grecia e ci sono altri paesi che preoccupano, come ad esempio il Portogallo o la Spagna che potrebbe essere la prossima a chiedere la ristrutturazione del debito». Quanto all'Italia «ha messo in atto provvedimenti importanti per uscire dalla crisi e ha fatto grandi passi avanti. Merito certamente dell'Esecutivo guidato da Mario Monti. Gli altri paesi devono eseguire l'esempio dell'Italia, che è diventata un vero modello in quanto sta riformando non solo i mercati, ma anche lo Stato».

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