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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2012 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2012 alle ore 09:15.

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Per me l'Europa è un "sogno razionale". Molte delle grandi figure dell'Europa del dopoguerra hanno condiviso questo sogno razionale. Willy Brandt è stato uno di questi giganti. Un altro uomo che ha condiviso l'amore di Brandt per la libertà, la pace e l'unità del vecchio continente, un amico di vecchia data e un saggio d'Europa, tragicamente scomparso di recente, è stato Václav Havel.

Havel diceva che «la speranza non ha niente a che vedere con l'ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha un senso, indipendentemente da come finirà». Havel e Brandt condividevano la stessa fede e la stessa speranza nell'unità dell'Europa: Brandt la chiamava Ostpolitik, Havel la chiamava libertà, in Polonia l'abbiamo chiamata Solidarnosc. Il succo è lo stesso: l'Europa non è solo un'arida analisi dei costi e dei benefici, o un'esposizione dei vantaggi dell'azione comune. È questo, ma è anche una scelta politica, una scelta in favore della speranza basata sugli insegnamenti del passato e sulle possibilità del futuro. Ecco perché oggi vorrei parlarvi delle mie speranze per l'Unione Europea, sulla base degli insegnamenti che ho tratto dai 30 mesi trascorsi come presidente del Parlamento europeo.

La mia prima riflessione riguarda la crisi attualmente in corso. Il mio mandato alla presidenza del Parlamento europeo ha coinciso con la migrazione dagli Stati Uniti all'Europa della crisi finanziaria del 2008 e la sua trasformazione, negli ultimi due anni, in una crisi del debito sovrano di alcuni Stati membri dell'Eurozona. Queste due crisi hanno messo in evidenza due tipi di dipendenza reciproca: il primo è l'accentuatissima interdipendenza dei mercati finanziari di tutto il mondo, il secondo è l'elevato grado di interdipendenza economica e politica degli Stati che fanno parte dell'Unione Europea.

La parola crisi, per ironia della sorte, ci viene dagli antichi greci. Originariamente krisis in greco significava "giudizio" o "decisione": in questo senso dunque era tanto una diagnosi quanto una cura. Possiamo superare una crisi solo mostrando una reale capacità di leadership, mostrando capacità di giudizio e prendendo le decisioni giuste, che devono essere basate su una chiara comprensione del livello di dipendenza reciproca in Europa. Per fare un esempio semplicissimo: circa il 70 per cento delle esportazioni tedesche sono dirette verso l'Europa e il 60 per cento verso Stati membri dell'Unione Europea. La Francia, i Paesi Bassi, l'Italia e il Belgio sono i principali mercati di sbocco delle merci tedesche. Con questo livello elevatissimo di penetrazione reciproca, l'idea di mercati nazionali non ha più senso, e questo significa che se la crisi dell'euro dovesse trasformarsi in "caos dell'euro" nessuno sarebbe al sicuro.

Paradossalmente è stata proprio la crisi a contribuire concretamente alla creazione, fra i cittadini europei, della consapevolezza comune di quanto dipendiamo gli uni dagli altri, e questo mi porta alla seconda riflessione: la necessità di individuare e affermare un obbiettivo finale chiaro. Perché i mercati finanziari sono così scettici riguardo agli impegni assunti finora dai capi di Stato e di Governo? Perché i salvataggi, i fondi di emergenza, l'impegno a modificare i trattati e via discorrendo non sono bastati a convincerli? Perché non vedono un progetto ambizioso e se anche questo progetto esiste i leader europei finora non lo hanno reso pubblico. I mercati vogliono vedere dove sta andando l'Europa, non nei prossimi mesi, ma nei prossimi anni.

Prendiamo il caso dell'energia. Nel campo dell'energia e delle infrastrutture energetiche l'orizzonte temporale per impegnare risorse finanziarie è di 30-40 anni. Gli investitori (e, voglio aggiungere, i cittadini che investono i loro risparmi nei fondi comuni che operano sul mercato a beneficio loro e dei loro figli) devono avere un panorama chiaro di quello che li aspetta, non una serie di abbozzi pasticciati. Dobbiamo dimostrare che crediamo nel nostro progetto politico e che abbiamo proposte e idee concrete per tradurlo in realtà. Dobbiamo dare nuovo slancio al nostro "sogno razionale". Gli elementi necessari sono quelli raccomandati dal Parlamento europeo: una Commissione più forte e assertiva, un bilancio comunitario più ampio e flessibile, basato su "risorse proprie" effettive, una maggiore disponibilità a "mutualizzare" i debiti degli Stati membri e un meccanismo credibile per far rispettare la disciplina di bilancio in futuro.

Tutto questo mi porta a una terza riflessione, basata sulla mia esperienza come presidente del Parlamento europeo. Le discussioni sul cambiamento dei trattati sono importanti, ma non devono rappresentare un surrogato, o un'alternativa, all'impegno politico nell'immediato. Abbiamo lottato con le unghie e con i denti per convincere tutti a firmare e ratificare il trattato di Lisbona. Sono andato a Praga per convincere di persona il presidente ceco Václav Klaus della sua importanza, ho discusso con i cittadini irlandesi prima del loro referendum. Abbiamo dovuto affrontare molti altri ostacoli sulla via verso la ratifica. Abbiamo detto che la sua adozione rappresentava il culmine di un dibattito andato avanti per un decennio. Eppure ora, dopo appena due anni dall'entrata in vigore del trattato di Lisbona, già assistiamo a un'altra tornata di negoziati. Quello che voglio dire è semplice: la base giuridica per le iniziative dell'Unione Europea deve sempre essere solida, ma la cosa fondamentale è che l'aspetto politico che vi sta dietro sia forte a sufficienza da dargli un senso e renderlo reale, e non il contrario.

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