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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2012 alle ore 07:48.
L'ultima modifica è del 29 agosto 2012 alle ore 08:29.

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«Il sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto degli embrioni è incoerente». È questa la conclusione a cui è giunta la Corte europea dei diritti umani (Cedu) in seguito al ricorso da parte di una coppia fertile ma portatrice sana di fibrosi cistica, circa l'impossibilità di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni.

La Corte ha infatti stabilito che così com'è formulata, la legge 40 viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art.8 Convenzione) della coppia e a cui lo Stato dovrà versare 15mila euro per danni morali e 2.500 per le spese legali. L'incoerenza – sostiene la Corte – sta nel fatto che un'altra legge dello Stato permette alla coppia di accedere all'aborto terapeutico in caso il feto sia affetto da fibrosi cistica. In altri termini, la legge lascia la scelta di concepire un figlio malato, salvo poi dare la possibilità di optare per l'aborto.

Non è la prima bocciatura che la legge 40 riceve da quando è stata approvata dal Parlamento nel febbraio 2004. Il suo è stato un iter difficile sin dal principio: già nel 2005 si è svolto un referendum abrogativo per smantellare i punti più controversi, come il numero massimo di embrioni impiantabili e il loro congelamento, consultazione senza esito a causa del mancato raggiungimento del quorum. Questioni che poi il 1° aprile 2009 la Consulta ha dichiarato incostituzionali. La sentenza della Corte costituzionale, la 151, ha abrogato sia l'obbligo di trasferire in utero tutti gli embrioni fecondati sia la produzione di un numero massimo di tre ovuli.

«In tema di analisi pre-impianto – dice il ginecologo Mauro Costa, past president della società italiana ospedaliera sterilità e responsabile del centro infertilità di Genova – la legge è invece ambigua perché non vieta esplicitamente l'analisi pre-impianto, anche se il veto inizialmente era contenuto nelle linee guida. Nel 2008, in seguito a ricorsi al Tar, il divieto è scomparso dalla linee guida, ma non sono state aggiunte precisazioni sulla possibilità di diagnosi».

Inoltre vieta la selezione eugenetica che non sia finalizzata alla salute dell'embrione. «In realtà - continua Costa – l'eugenetica non c'entra nulla, perché riguarda il tentativo da parte di Governi e Stati di condizionare il tipo di persone che devono o non devono nascere e condizionare le caratteristiche genetiche. In questo caso stiamo parlando di qualcosa di molto diverso: si tratta di diagnosticare su un singolo embrione una singola malattia, accertabile tra l'altro con l'amniocentesi quando però il feto è già alla 15esima settimana di gestazione».

A colpi di sentenze, insomma, la legge da otto anni a questa parte continua a cambiare (complessivamente sono 16 i casi in cui i giudici hanno ordinato l'esecuzione delle tecniche di fecondazione dichiarandone illegittimi i limiti) e sulla base di pronunciamenti di singoli tribunali la diagnosi pre-impianto viene eseguita in una buona parte dei centri privati. «La sentenza di ieri della Cedu – prosegue Costa – dice in maniera molto chiara che non si tratta di un problema della singola coppia, ma è la legge che è incoerente e quindi incostituzionale».

Cosa succederà adesso? «La sentenza obbliga l'Italia a conformarsi, e di fatto lo Stato dovrà cambiare la legge, a meno che non presenti ricorso», spiega Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale. La sentenza della Corte di Strasburgo diverrà definitiva entro tre mesi se nessuna delle parti farà ricorso per ottenere una revisione davanti alla Grande Chambre. Se quindi per ipotesi, in questi tre mesi di attesa, la coppia italiana volesse accedere alla diagnosi pre-impianto in un centro di procreazione assistita e questo si rifiutasse di farla, «la strada possibile sarebbe di ricorrere al tribunale – conclude Onida –: il giudice italiano avrebbe due strade: o ritenere la legge 40 già interpretabile alla luce della sentenza della Corte di Strasburgo e quindi autorizzare la procedura, o adire la Corte Costituzionale per un pronunciamento».

Ma la sentenza apre un nuovo capitolo di scontro, è infatti la prima volta in assoluto che la legge 40/04 viene espressamente censurata per contrasto con la legge 194/78 (quella sull'aborto). «La questione della compatibilità tra legge 40 e legge 194 sollevata dalla Corte di Strasburgo è «un problema già noto», ma «aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza», ha sottolineato a margine di un convegno il ministro della Salute Renato Balduzzi, sottolineando che in ogni caso «una riflessione va affrontata e deve partire dal bilanciamento dei principi: sono beni da tutelare la soggettività giuridica dell'embrione così come la salute della madre». La questione - ha ricordato Balduzzi - nel nostro Paese era già stata posta da giudici di merito e in prospettiva probabilmente sarà riproposta alla Corte.

Sul fronte politico, la reazione alla sentenza di Strasburgo è massiccia e contrapposta. La parlamentare del Pdl Eugenia Roccella è certa che il Governo difenderà le leggi votate dal Parlamento e che farà ricorso alla Grande Chambre. E sottolinea che i ricorsi alla Cedu dovrebbero avvenire dopo aver esaurito tutti i gradi di giudizio nella nazione di provenienza. Di parere opposto il senatore Ignazio Marino, presidente della Commissione d'inchiesta sul Ssn: «La decisione di Strasburgo ci indica la via: riscrivere completamente la legge 40».

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