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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2012 alle ore 10:59.

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Non è la fine del nucleare, ma un segno tangibile del suo declino. Dopo Germania e Svizzera, anche il Giappone ha annunciato ieri di voler voltare le spalle all'energia che sgorga dalla fissione atomica. Il fatto curioso è che tutti e tre i paesi – ma il Sol Levante per ultimo – hanno preso quest'ardua decisione per un motivo che ha nome, cognome e indirizzo: Dai-ichi Nuclear Power Plant, Fukushima, Giappone.

Berlino è stata la più drastica: entro il 2020. Berna la più pragmatica: entro il 2034, quando il suo reattore più giovane arriverà al capolinea. «Non è un sogno – recita un comunicato di Tokyo, che è stata la più incerta – ma una strategia concreta per creare un nuovo futuro». Ovvero decommissionare i reattori alla loro scadenza naturale senza costruirne di nuovi (quindi entro il 2040) e triplicare l'elettricità ricavata da fonti rinnovabili.

In realtà, dei 50 reattori rimasti al Giappone – che con una capacità di 47,5 gigawatt era il terzo paese più "nucleare" al mondo – solo due sono oggi in funzione. Tutti gli altri sono sotto revisione da parte della nuova Authority nucleare, fatta nascere dopo lo tsunami che ha travolto la centrale di Fukushima, l'11 marzo del 2011. Del resto, il traballante governo di Yoshihiko Noda, ha subìto tutte le pressioni possibili, tanto dalle lobby domestiche quanto dalla diplomazia americana, che negli anni 50 esportò la tecnologia atomica in quel paese atomicamente ferito dall'esito finale, e spaventoso, della Seconda guerra mondiale. C'è poco da fare: il destino che incrocia il Giappone con l'energia nucleare è troppo amaro. E l'attuale movimento popolare antiatomico, è politicamente troppo forte.

Si dirà che, a un anno e mezzo dall'incidente, la parola Fukushima appare di rado sui media occidentali, forse perché provoca un brivido. Ma altrettanto non si può dire del Giappone, dove quel nome genera, insieme alle emozioni, radioattività. «Aiuti internazionali per evitare un incendio al reattore 4», recitava un titolo del Japan Times di una settimana fa. L'articolo racconta della drammatica situazione al reattore numero quattro di Fukushima, l'unico che era spento al momento dello tsunami.
«Il combustibile esausto nell'unità 4 è un drago che dorme», sentenzia Arnie Gundersen, un ingegnere nucleare e attivista americano, che due settimana fa ha incontrato membri del Parlamento di Tokyo per levare l'allarme: il reattore è devastato e 1.500 barre di cesio, ricoperte di una lega di zirconio che brucia a contatto dell'aria, rischiano di causare un'esplosione. Finora, la Tepco – la disgraziata società che gestisce la centrale – ha rimosso due barre sole. Dice che comincerà a fare il resto l'anno prossimo, e finirà in tre anni. Non basta questo, a cambiare il vento dell'opinione pubblica?

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