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Questo articolo è stato pubblicato il 24 gennaio 2013 alle ore 06:48.
L'ultima modifica è del 24 gennaio 2013 alle ore 07:52.

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Giovanni Agnelli ha svolto una parte da protagonista anche nella vita pubblica. Ma non perché si sentisse investito di particolari prerogative, come leader della Fiat. Riconosceva l'autonomia della politica, da liberale qual era con una cultura laica e un rispetto scrupoloso delle istituzioni. Ha detto di lui Carlo Azeglio Ciampi: «Sull'Italia domandava, e sapeva ascoltare. Come se non volesse invadere competenze altrui». Se Agnelli finì per assumere nella scena politica un ruolo eminente, fu in pratica quello di un ministro-ombra degli Esteri, di ambasciatore permanente dell'Italia nel mondo.

E tutto senza alcun mandato ma con un'autorità riconoscibile e riconosciuta. Una funzione, questa, che egli concepiva alla stregua di un compito a cui assolvere, a sostegno della causa del proprio Paese, qualsiasi fosse il governo; e, insieme, come un modo di essere partecipe delle vicende della propria epoca. A detta di Alberto Ronchey, l'Avvocato era «un assiduo indagatore di uomini e cose, rapido nell'osservare e nel percepire», e altrettanto «impaziente di venire al dunque», a quanto gli sembrava più utile ai propri disegni. Il suo atteggiamento apparentemente eclettico e volubile celava in realtà un impasto di istinto e di calcolo, un desiderio vorace di sapere e di capire.

Il fatto che Agnelli fosse l'erede di un'impresa in possesso di un illustre blasone non basta a spiegare come sia venuto imponendosi alla ribalta con tratti distintivi così spiccati da costituire un caso a sé stante nel firmamento internazionale. Se ciò avvenne fu soprattutto per la sua formazione cosmopolita e il prestigio che seppe conquistarsi grazie a un'ampiezza di visuali fuori dal comune.

Chi aveva intuito per primo, quando Agnelli passava ancora come un plurimiliardario giramondo svagato e gaudente, quali reali attitudini e ambizioni si celassero nel "nipote del Senatore", era stato un uomo navigato e tutt'altro che indulgente nei propri giudizi come Enrico Cuccia: «Mi è piaciuto subito, perché gli stava stretto tutto, Torino, l'Italia... E non aveva paura di farsi dei nemici», dirà di Agnelli in una delle sue rarissime confidenze.

Unitamente ad André Meyer della banca franco-anglo-americana Lazard, chi aprì ad Agnelli le porte della business community internazionale fu nel 1957 David Rockefeller. «Ci trovammo in sintonia sul piano umano e su quello politico e sociale e quello degli affari», ricorderà poi il magnate americano.

Un altro sodalizio, Agnelli stabilì con John Kennedy, che aveva conosciuto a Londra nel dopoguerra: «È un po' snob, un bostoniano sotto ogni punto di vista, London School of Economics, Harvard, buona preparazione economica, molto sport, la vela, i cavalli. Idee progressiste, da tipico liberal americano, massima apertura verso le minoranze di colore». Di Kennedy l'aveva colpito soprattutto «un'eccezionale vitalità», insieme al «senso della politica come servizio dovuto». Ma non gli erano certo indifferenti altri tratti personali del presidente americano: «L'amore per le donne, l'irrequietezza, la curiosità», che erano affini, del resto, alle sue inclinazioni: lo stile disinvolto e attraente, l'apertura per tutto ciò che sapesse di nuovo e, non da ultimo, l'arte di vivere, una propensione ai piaceri della vita refrattaria a vincoli e convenzioni.

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