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Questo articolo è stato pubblicato il 31 gennaio 2013 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 31 gennaio 2013 alle ore 09:38.

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Mediobanca venne costituita l'11 aprile del 1946, a pochi mesi dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il capitale sociale di un miliardo di lire fu sottoscritto per il 35% dalla Banca Commerciale e dal Credito Italiano e per il restante 30% del Banco di Roma. Circa le origini del progetto, il 23 gennaio 1946, nell'informare il Cda della Banca Commerciale dell'ormai imminente costituzione del nuovo istituto, Raffaele Mattioli ricordava che «nell'estate del 1944 richiamammo l'attenzione delle autorità finanziarie sui gravi problemi che il sistema bancario italiano si sarebbe trovato ad affrontare nell'immediato dopoguerra.» E aggiungeva: «Le ingenti perdite effettive cagionate dalla guerra alla nostra attrezzatura produttiva non avrebbero potuto non risolversi in una accentuata generale insufficienza di mezzi finanziari.» Di conseguenza, proseguiva Mattioli, «le banche di credito ordinario si sarebbero trovate di fronte a due alternative: o mascherare sotto forma di crediti di esercizio, da rinnovare più volte alle scadenze nominali, effettivi crediti finanziari; o limitare la propria azione ai rapporti con quelle poche imprese che erano riuscite a salvare dalle vicende della guerra un minimo organico della propria attrezzatura.»

Enrico Cuccia, che era allora un condirettore centrale della Comit ed era stato associato fin dall'inizio da Mattioli alla progettazione dell'iniziativa, venne nominato direttore generale della nuova banca. Tre anni dopo, eletto nel Cda, assunse anche la carica di amministratore delegato, che conservò fino al 1982 quando l'Iri (presidente Prodi) gli impose le dimissioni per limiti di età. Anche Cuccia si soffermò sulle funzioni di Mediobanca nella prima relazione annuale dell'Istituto, letta il 29 ottobre 1947: «In un momento in cui il nostro Paese muoveva i primi passi per uscire dal labirinto delle sue rovine - scrisse Cuccia - era sembrato essenziale, per la ripresa economica italiana, la creazione di un organismo che promuovesse la formazione di nuovo risparmio a media scadenza necessario a mettere le aziende produttive in condizioni finanziarie di equilibrio e che contribuisse a contenere le richieste delle aziende stesse all'impoverito settore creditizio ordinario entro i limiti delle effettive esigenze a breve termine».

L'iter per la creazione di Mediobanca era stato molto complesso, tanto che trascorsero 18 mesi fra la prima esposizione dell'idea da parte di Mattioli e la costituzione della banca. Vi furono notevoli difficoltà nell'identificare i possibili soci e nel convincerli a sottoscrivere il capitale. Mattioli concepì che Mediobanca avesse un elevato numero di partecipanti, 14, fra cui tutte le principali banche e assicurazioni, proprio per sottolineare che non si trattava di una iniziativa della sola Comit. Solo il Credito Italiano fu favorevole fin dall'inizio all'iniziativa. La maggior parte degli interpellati si sottrasse, probabilmente sospettando che, data la personalità di Mattioli, Mediobanca sarebbe stata un braccio armato della Comit. La resistenza più forte venne da Luigi Einaudi, divenuto in quel tempo governatore della Banca d'Italia. La sua preoccupazione era che, attraverso Mediobanca, la Comit volesse tornare "ai vecchi amori della banca mista" da cui era nata la crisi degli anni trenta e la creazione obbligata dell'Iri. In quegli stessi mesi, l'Economist, diede un giudizio liquidatorio del progetto, scrivendo che il nuovo istituto sarebbe stato «il cestino della carta straccia della Comit».

Vi furono animate discussioni con il governatore, che si piegò solo quando Mattioli prospettò la possibilità di un ingresso nell'azionariato del nuovo istituto di una delle maggiori banche svizzere. A quel punto la Banca d'Italia cedette, anche se l'offerta svizzera non ebbe seguito. Né è chiaro se la disponibilità manifestata dagli svizzeri fosse effettiva o un favore reso a Mattioli. L'idea di una partecipazione di banche estere nel capitale di Mediobanca fu presente fin dall'inizio. Almeno così scrisse Cuccia in un memorandum riservato inviato all'Iri nel luglio del 1984, quando ebbe inizio lo scontro con Romano Prodi che avrebbe portato, nel 1988, alla privatizzazione di Mediobanca e alla designazione di Cuccia come presidente onorario, mentre Maranghi veniva nominato ad. L'ingresso dei soci esteri si concretizzò nel 1958: non gli svizzeri, bensì la Banca Lazard, la Lehman Brothers di New York, la Berliner Handels di Francoforte e la belga Sofina. Con Lazard, e in particolare con André Meyer, Cuccia strinse un rapporto molto forte che ha accompagnato e favorito la crescita di Mediobanca.

Come è noto, Cuccia fu uno straordinario amministratore di Mediobanca, che guidò con assoluta indipendenza, anche rispetto ai suoi soci e alla stessa Banca Commerciale da cui proveniva. Tanto da far nascere qualche discussione con Mattioli. Ve ne è traccia in una lettera emersa negli anni Ottanta, ma scritta molti anni prima, nella quale Mattioli rivolgeva a Cuccia la domanda polemica: «Nell'interesse di chi è amministrata Mediobanca?», e aggiungeva che Mediobanca non era e non poteva essere un semplice «investimento di portafoglio» delle Bin. Si è detto che Mattioli fosse perplesso, o addirittura contrario, al coinvolgimento di Mediobanca nei grandi affari. In realtà, la lettera risale all'inizio degli anni 60, quando la partecipazione di Mediobanca alle vicende dei grandi gruppi industriali italiani era appena agli inizi. Il problema di Mattioli era un altro: da un lato era turbato dall'estrema riservatezza con la quale Cuccia circondava le proprie decisioni, dall'altro non accettava del tutto la posizione netta di rifiuto da parte di Mediobanca di accettare le indicazioni dei soci circa il finanziamento di alcuni loro clienti. Qualche anno fa ho pubblicato una nota di Mattioli, lasciata a margine di un Cda di Mediobanca, nella quale lamentava che il suo istituto era talvolta costretto a prendere in carico finanziamenti non a breve termine dei propri clienti perché Mediobanca si rifiutava di farlo. Cuccia, a sua volta, sosteneva che, data la particolarità del giudizio che una banca di credito industriale era chiamata a dare nel decidere se finanziare o meno un programma di pluriennale investimenti, solo l'istituto, e non i suoi soci bancari, poteva e doveva apprezzare le circostanze del progetto.

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