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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2013 alle ore 07:11.

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La Banca d'Italia, con una circolazione monetaria pari a fine 2012 a 150 miliardi di euro, si presenta con un patrimonio netto di 23,5 miliardi; la Banque de France gestisce una circolazione non molto superiore (170 miliardi), ma esibisce un patrimonio poco sopra i 9 miliardi, mentre la Deutsche Bundesbank, con la sua massa di biglietti di 227 miliardi, dispone di capitale e riserve per appena 5,7 miliardi. Tra gli altri, il Banco de España dispone di mezzi propri per 3,8 miliardi di euro su una circolazione di 100 miliardi, mentre la Bank of England al febbraio scorso esibiva anch'essa 3,8 miliardi di euro di patrimonio con 67 miliardi di circolazione (vedi tabella 1). I dati citati dimostrano che la Banca d'Italia è «un'impresa» con un patrimonio molto elevato. Cerchiamo di valutare se sia troppo.

Con la nascita dell'euro le massime funzioni di istituto centrale sono state trasferite alla Bce e i «mercati» assumono sempre che una banca centrale «non possa» fallire: nel caso di un difetto grave di liquidità essa (o il sistema a cui appartiene) è legittimata a stampare moneta. Una situazione generale di crisi assoluta andrebbe risolta con operazioni straordinarie (ad esempio, il nostro Iri nel 1933); operazioni che non si sono peraltro rivelate necessarie nemmeno in occasione dell'ultima grande crisi.
Per dimensione di mezzi propri la Banca d'Italia è atipica nel panorama europeo. Quale valore si può dare all'eccesso di patrimonio? Sulla base dei dati a fine 2012, possiamo elaborare indicatori assumendo come componenti del peer group Banque de France, Deutsche Bundesbank, Banco de España e Bank of England. Il rapporto tra patrimonio e circolazione raggiunge un massimo del 5,8% per la Bank of England (che però non dispone di un fondo rischi generali). Assumendo per prudenza questo valore «estremo», il patrimonio netto «normale» della Banca d'Italia dovrebbe essere di 8,7 miliardi. Se l'indicatore si rapporta al totale del bilancio, il massimo lo rileviamo nella Banque de France con l'1,3%; con questa percentuale, anche qui «estrema», il patrimonio netto della Banca d'Italia dovrebbe scendere a 7,9 miliardi. L'eccesso di patrimonializzazione è valutabile «prudenzialmente» tra 14 e 15 miliardi di euro al 31 dicembre 2012; al netto di questo «eccesso» la Banca d'Italia resterebbe comunque l'ente centrale più solido in Europa.

3. Analisi dei motivi della super-patrimonializzazione di Bankit
Quale il motivo di questa super-patrimonializzazione? Una banca centrale realizza profitti nel contesto della sua attività tipica. Nel suo bilancio la fonte di provvista prevalente è la circolazione monetaria che non ha costi, ma genera rendite perché è impiegata in attivi fruttiferi. Inoltre, la banca centrale è (giustamente) monopolista nei servizi che eroga al sistema. Ne deriva che essa è gestita, di norma, in regime di profitti praticamente certi. Nel raffrontare diverse banche centrali possiamo ritenere che le attività svolte siano in qualche modo omogenee; pertanto se un'impresa ha più patrimonio di un'altra non vi sono che due risposte. La prima è la «qualità» della dirigenza. Dobbiamo riconoscere ai dirigenti che si sono avvicendati al comando di via Nazionale il massimo della probità e, tenuto conto delle circostanze via via presentatesi, anche della competenza. Tuttavia, non c'è ragione di dubitare che lo stesso non sia accaduto per le banche centrali del nostro peer group, tutte guidate da persone di grande capacità. Vale dunque la seconda risposta al nostro interrogativo, che sta nella diversa politica di distribuzione dei profitti. Vediamone i dettagli approfondendo il confronto con le due maggiori banche centrali dell'eurozona, la francese e la tedesca.

Se assumiamo come riferimento il periodo dell'euro (dal 1999 al 2012) possiamo calcolare i seguenti dati (tabella 2): nei 14 anni, la Banca d'Italia ha dichiarato nel suo bilancio utili netti pari complessivamente a 7.915 milioni di euro; ha riversato allo Stato 4.620 milioni; l'erario non ha percepito imposte perché gli importi determinati sui modesti profitti dichiarati sino al 2008 sono stati più che compensati da crediti d'imposta (saldo dell'intero periodo a favore della Banca d'Italia per 291 milioni). I crediti d'imposta sono sorti essenzialmente nel 2002 quando i titoli all'1% che avevano formato oggetto di conversione del debito in essere nel 1993 sul conto corrente di tesoreria con lo Stato sono stati convertiti in nuovi titoli a tassi di mercato evidenziando una perdita cospicua (21,8 miliardi di euro) che venne coperta in parte (14,6 miliardi) mediante addebito ai fondi di rivalutazione dell'oro (13,1 miliardi) e ai fondi rischi (1,6 miliardi); sulla perdita valse la deducibilità ventennale, generando un credito di 7,2 miliardi verso lo Stato per imposte differite attive da recuperare. I partecipanti al capitale (prima pubblici e ora privati) hanno ricevuto nei 14 anni un totale di 709 milioni, ma a valere sui frutti delle riserve (che quindi si assumono implicitamente di loro competenza). Dobbiamo ritenere che i bilanci siano stati compilati con la dovuta prudenza; d'altro canto, fanno fede le relazioni dei sindaci e le clear opinion dei revisori indipendenti. Nei conti economici compaiono cospicui accantonamenti, a valere persino sui frutti delle riserve (accantonamenti che sarebbe forse più appropriato contabilizzare in sede di ripartizione degli utili invece che mediante addebito ai ricavi d'esercizio). Tutto ciò ha riguardato soprattutto gli anni sino al 2008, quando l'utile dichiarato è oscillato tra i 25 milioni del 2004 e i 535 milioni del 1999. Successivamente le cifre sono divenute più interessanti per lo Stato, raggiungendo il massimo nel 2012 con un utile record di 2.501 milioni e imposte per 1.927 milioni (tabella 3).

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