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Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2014 alle ore 09:00.
L'ultima modifica è del 17 febbraio 2014 alle ore 11:12.

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Il denaro è uno strumento di governance, oltre che uno strumento di commercio. Mette i cittadini nelle condizioni di partecipare alla vita economica della loro società e al tempo stesso rammenta loro dove risiede l'autorità politica e a chi devono fedeltà. In quasi tutte le 195 nazioni della Terra, le monete e le banconote che riempiono le tasche e i portafogli della gente sono un'asserzione di sovranità nazionale.

Oggi però esiste un'eccezione a questo principio generale, ed è l'euro, la moneta comune di 18 degli Stati membri dell'Unione Europea. L'Eurozona li ha messi all'avanguardia del più grande esperimento di cooperazione regionale che il mondo abbia mai conosciuto.Questo esperimento, però, negli ultimi cinque anni non ha avuto vita facile. Sulla scia del tracollo finanziario ed economico del 2008, l'euro è diventato fonte di sconvolgimenti economici e divisioni politiche, mettendo gli Stati dell'Europa settentrionale e meridionale gli uni contro gli altri.

La crisi non è finita, ma la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese François Hollande e gli altri capi di Stato e di Governo sono decisi a non consentire lo sfaldamento dell'Eurozona: rafforzano gli accordi sulle finanziarie nazionali, la spesa pubblica e la regolamentazione finanziaria, vanno avanti con l'unione bancaria e prendono misure contro la disoccupazione.

Nell'assumere queste iniziative, i leader europei dei nostri giorni, come i loro predecessori della metà del secolo scorso, hanno seguito i saggi insegnamenti di Jean Monnet. Monnet è morto 35 anni fa, molto prima che l'euro entrasse in circolazione, ma non avrebbe fatto fatica a comprendere lo scopo dell'unione monetaria: fasciare le ferite del continente più insanguinato della storia moderna e trasformarlo in un'area di pace, prosperità, democrazia e influenza globale, animata da valori comuni e governata da politiche e istituzioni comuni. Questo è il Progetto Europeo. Come suo massimo architetto, Monnet non avrebbe fatto fatica nemmeno a comprendere gli errori, i dilemmi e i pericoli che oggi mettono a rischio tale progetto.

Il metodo che lo guidò attraverso tutta la sua lunga esistenza attribuiva particolare importanza alla necessità di calibrare e scadenzare le innovazioni in materia di politiche economiche, in modo tale da rendere irreversibile il processo generale di integrazione politica. A differenza di Monnet, tuttavia, i leader responsabili dell'adozione dell'euro, negli anni 90, non riuscirono a garantire le condizioni e le istituzioni politiche necessarie, rendendo di fatto inevitabili i problemi che affliggono in questo momento l'Unione Europea.

Monnet è stato salutato come uno statista, e in effetti fu un personaggio fuori dal comune e di fondamentale importanza, una figura chiave nella trasformazione del concetto stesso di Stato. La modernizzazione, secondo lui, non consisteva semplicemente nello sfruttare le nuove tecnologie per migliorare l'industria, i trasporti e le comunicazioni: significava anche adeguarsi alla matassa sempre più fitta di transazioni economiche tra le singole nazioni, dove la distanza fisica e i confini nazionali rappresentavano ostacoli via via meno impervi. Una nazione autenticamente moderna doveva imparare a conservare la sua indipendenza dove necessario, ma al tempo stesso approfittare della sua interdipendenza dove possibile.

Secondo Monnet bisognava partire dalla finanza e dal commercio, in particolare nel settore delle risorse minerarie, dove l'indipendenza e la sovranità sono concetti relativi e dove l'interdipendenza apporta maggiori benefici e risulta più naturale per tutte le parti in causa. Proprio per il fatto di essersi concentrato su questo aspetto dell'impresa, Monnet è stato visto come un economista (e uno dei più importanti del XX secolo, potremmo dire, insieme al suo contemporaneo John Maynard Keynes).

Per Monnet, l'insegnamento era che l'arte di governare dipende dall'assennatezza delle politiche economiche, e non solo dall'abilità politica, e dalla capacità di unire le due cose in un unico processo per conseguire il sospirato obbiettivo dell'armonizzazione delle relazioni internazionali.Anche nei giorni cupi in cui quasi tutto il continente era sotto il controllo delle forze dell'Asse, Monnet ragionava sul futuro e su come spezzare il circolo vizioso di guerre totali seguite da false pacificazioni. Nel 1943, nel corso di una riunione del Governo francese in esilio ad Algeri, dichiarò: «Non ci sarà pace in Europa se gli Stati si ricostituiranno sulla base della sovranità nazionale […] I Paesi europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la prosperità e lo sviluppo sociale necessari. Gli Stati europei devono costituirsi in una federazione».

Nei quattro anni successivi, Monnet lavorò su una nuova intesa di lungo periodo da negoziare con la Germania (non da imporre alla Germania). L'accordo riduceva dazi e restrizioni sul commercio di carbone e acciaio tra Francia e Germania, unendo due settori industriali fondamentali sotto l'egida di un'autorità comune sostenuta dai due Stati.Questo accordo bilaterale era l'esempio perfetto della strategia di Monnet per superare quelle sovranità nazionali che erano di ostacolo alla realizzazione della sua visione. Applicando gli insegnamenti della sua gioventù nel Cognac, gettava le fondamenta, «lentamente e con concentrazione», per quell'«unica cosa» che sapeva di dover fare per portare alla luce un'Europa federata: creare nuovi fatti economici sul terreno. Con il passare del tempo, i leader politici nazionali avrebbero visto quali vantaggi portava pensare, decidere, agire, e in ultima analisi governare, a livello paneuropeo.

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