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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2014 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 13:54.

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Nel definire la nostra identità culturale, noi italiani tendiamo sempre a salire sulle spalle dei giganti, ovvero dei nostri grandi predecessori che tanto hanno contribuito alla storia della cultura europea e mondiale, e quasi mai invece assumiamo come riferimento la nostra scena culturale contemporanea. Quando però, come nel caso dell'Oscar a La grande bellezza – che peraltro è solo l'ultimo di una serie impressionante di riconoscimenti mietuti dalla pellicola di Sorrentino negli ultimi mesi – ci accorgiamo che anche l'Italia di oggi riesce a produrre espressioni culturali importanti e apprezzate in tutto il mondo, difficilmente ne traiamo le conseguenze che dovremmo.

In particolare, difficilmente ci rendiamo conto fino in fondo di quanto ancora il nostro Paese avrebbe da dire in termini di cinema, arte, letteratura, musica, design, nuova multimedialità (per limitarci a qualche esempio) se solo avessimo il coraggio di continuare a credere e soprattutto ad investire in uno dei pochi settori nei quali tutti ci riconoscono ancora un indiscusso potenziale di vantaggio competitivo.

In Italia non si fa che chiamare in causa la cultura come vera pietra angolare del nostro futuro, ma a queste enfatiche dichiarazioni corrisponde una realtà in palese e sconfortante contraddizione con quanto appena affermato: i nostri livelli di spesa pubblica nel settore sono tra i più bassi d'Europa, e tutta la nostra attenzione continua a concentrarsi sulla logica della valorizzazione, in assenza di uno sguardo più ampio e strategico sull'intera macro-filiera della produzione culturale e creativa.

Il messaggio stesso de La grande bellezza, al di là di un riconoscimento lusinghiero al nostro cinema, non può e non deve consolarci: il motivo per cui ha vinto è anche la credibilità di una narrazione che parla di un Paese in disfacimento, compiaciuto della propria stessa crisi, e soprattutto incapace di indirizzare le proprie energie verso un qualsivoglia progetto di futuro. Il valore del film di Sorrentino sta anche nella spietata precisione della sua diagnosi, che rappresenta quindi uno stimolo ulteriore a reagire in modo radicale a questa lenta morte per soffocamento della nostra cultura.

In corrispondenza delle due edizioni degli Stati Generali della Cultura promosse da questo giornale, abbiamo presentato attraverso le elaborazioni dell'Indice 24 alcuni dati che mostrano come in questo momento ad un'industria creativa nazionale (moda, design, industria del gusto) ancora capace di aggredire con successo i mercati internazionali (e che comunque più che crescere difende le proprie posizioni), corrisponda un'industria culturale (cinema editoria, musica, videogiochi e multimedialità) decisamente più debole, piuttosto ripiegata nei confini nazionali, e priva di quel dinamismo che oggi si riscontra invece in tanti altri Paesi europei, quelli nordici in testa. E questo è un segnale preoccupante: non bisogna infatti dimenticare che anche nei settori che rappresentano le realtà industrialmente più sviluppate come quelli della moda, del design, o del gusto, per continuare ad essere competitivi c'è bisogno di operare in un ambiente denso di stimoli creativi, come quelli che provengono appunto dall'arte, dalla letteratura, dalla musica – settori senz'altro di minor peso economico quanto a fatturato, ma essenziali per dare corpo a quella che il nostro compianto, grande economista della cultura Walter Santagata definì giustamente atmosfera creativa di un Paese.

Il riconoscimento attribuito a La grande bellezza può costituire un punto di svolta se diventa un'occasione per iniziare davvero a credere nel potenziale della nostra scena creativa attuale, e per far seguire a tale presa di coscienza ciò che è drammaticamente mancato negli ultimi anni: una strategia innovativa e coerente di sviluppo della nostra macro-filiera culturale e creativa. Il che vuol dire risorse, ma soprattutto una visione di medio-lungo termine articolata ed efficace, e anche concreti strumenti quali ad esempio forme appropriate di deducibilità fiscale degli investimenti nel settore culturale. Ma gli incentivi non bastano. Il panorama globale della produzione culturale e creativa sta cambiando velocemente, ci sono molti Paesi nuovi che non soltanto si affacciano prepotentemente alla ribalta ma mettono in atto strategie di investimento molto ambiziose. Quel che manca loro, e che faranno fatica ad accumulare nel breve-medio termine, sono le competenze specifiche, che invece il nostro Paese continua a produrre ma che utilizza poco e male, quando non finisce per regalarle ad altri.

Per essere in grado di attrarre risorse internazionali verso il nostro sistema culturale e creativo bisogna in primo luogo tornare ad essere un Paese capace di dare un senso sociale e civile alla cultura. Bisogna essere in grado di mettere al lavoro le proprie competenze e far loro produrre valore. Se i tassi di partecipazione culturale degli italiani sono anche questi tra i più bassi d'Europa, non basteranno dieci premi Oscar a convincere gli investitori internazionali che in Italia abbia senso investire su un reale percorso di sviluppo a base culturale. Ripartire dalla cultura significa quindi in primo luogo investire sulle capacità dei nostri cittadini, considerare ad esempio i nostri bassissimi tassi di lettura, di educazione musicale, così come il nostro preoccupante analfabetismo di ritorno come vere emergenze nazionali. Altrimenti possiamo continuare a compiacerci dello spettacolo di un disfacimento che non rappresenterebbe altro che il triste, speculare ribaltamento di quello splendido passato di cui tanto ci gloriamo ma che ormai tanto poco ci appartiene, se non dimostriamo di poterne ancora essere all'altezza.

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