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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2010 alle ore 18:42.
L'imperatore Adriano l'aveva voluto per celebrare la madre di Enea, il mitico fondatore di Roma. Ma il Tempio di Venere, costruito sulle pendici della Velia a partire dal 121 d.C. e inaugurato dal suo successore Antonino Pio nel 141, era anche un simbolo politico per l'imperatore filosofo, che con l'edificio voleva creare una sintesi tra il passato e il futuro dell'Urbe, tra Oriente e Occidente, tra Aeternitas e Fortuna.
Oggi, dopo ben 26 anni di restauri costati oltre 264mila euro, il tempio è stato riaperto al pubblico, che finalmente potrà visitare l'area fatta tornare alla sua integrità originaria. Le due metà del tempio, infatti, sono rimaste a lungo divise l'una dall'altra e persino gestite da due diverse amministrazioni: il Comune di Roma amministrava la cella di Venere, che faceva parte dell'Antiquario Forense, mentre il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali controllava quella della cella di Roma, trasformata in un piccolo parco urbano. La parte asfaltata è stata eliminata e sostituita con un manto erboso. Inoltre, le infiltrazioni d'acqua avevano danneggiato le absidi del tempio, mettendone a rischio la stabilità.
Il tempio era stato eretto dove prima sorgeva il vestibolo della Domus Aurea, di cui si mantenne l'orientamento e si riutilizzarono in parte le fondazioni. Con le sue forme ellenizzanti si innalzava al centro del grande podio artificiale: questo era affiancato sui lati lunghi da un doppio portico di colonne in granito grigio, su cui si aprivano al centro i due propilei, mentre sui lati corti era collegato con delle scalinate alla piazza del Colosseo e al Foro. Le colonne, visibili ancora oggi, furono rialzate durante i restauri degli anni trenta.
Il tempio vero e proprio si presentava come un diptero: all'interno due celle orientate in senso opposto, una per ciascuna divinità, e precedute da un vestibolo. Del peristilio di colonne corinzie non rimane nulla, e della cella verso il Colosseo – quella dedicata a Venere – resta solo l'abside. L'altra abside, invece, fu inglobata nell'ex convento di Santa Francesca Romana. Quanto è giunto sino ad oggi risale, però, in gran parte, al restauro voluto da Massenzio nel 307 d.C. in seguito all'incendio che distrusse tutta la parte centrale del Foro. A questo restauro si devono le celle absidali in laterizio con copertura a volte cassettonate, gli stucchi dei cassettoni (ricopiati anche dal Palladio), le colonne in porfido lungo le pareti e il pavimento in lastre marmoree. L'abbandono dell'edificio e la seguente spoliazione delle strutture hanno inizio nel VII secolo, quando l'imperatore Eraclio concede a papa Onorio (625-638) le tegole di ottone della copertura del tetto per usarle a San Pietro.