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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2011 alle ore 18:08.

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Cento passi per la legalitàCento passi per la legalità

. Una delle poche cose cui cerco di non sottrarmi è il rapporto coi ragazzi, nelle scuole. Andare nelle classi e spiegare le regole della stampa, raccontare come funziona il mestiere del giornalista, significa fare aumentare il loro senso critico e rafforzare la fiducia nell'informazione. Spesso i più giovani partono dal luogo comune generale che i giornalisti siano tutti venduti, che la stampa non serva. Sfatare questo mito è importante e lo si fa raccontando i limiti e le regole dell'informazione. Insegnare, ad esempio, che non si può ragionare per categorie, nel bene e nel male: che non tutti gli abitanti di Casal di Principe sono "casalesi" nel senso mafioso, e che non tutti i magistrati sono buoni solo perché sono magistrati; che le notizie vanno verificate e non si può credere alla massa di informazioni indistinte della Rete, che bisogna rispettare le sentenze e la giurisdizione, e non si può accusare di mafia qualcuno senza che ci sia una sentenza chiara. Questo rigore porta a capire che è necessario passare dalle categorie alle persone; e che anche le persone, se negative, non sono la regola o un destino ineluttabile. Spiegare che sbagliare è possibile ma che poi è fondamentale correggere, rettificare.
Anche un libro che racconta la camorra può diventare uno strumento efficace di educazione alla legalità; e lascia una traccia tanto più profonda quanto più si dimostra "resistente" al tempo; ovvero, quanto più i documenti su cui si basa sono verificati e vagliati; quanto più si evitano generalizzazioni sociologiche o considerazioni personali e si è precisi nella citazione delle fonti giudiziarie. In questo senso anche un giornale come Il Mattino, per cui lavoro, può svolgere un ruolo importante nell'educazione alla legalità. Stare in prima linea è una condizione che come giornalista non ti sei scelto, ma in cui ti sei ritrovato. È almeno da un quarto di secolo, da quando hanno ucciso Giancarlo Siani, che c'è una continuità di tutta la redazione su questo tema. Un lungo periodo costruito semplicemente facendo in modo serio il nostro lavoro. Su questi temi continua a essere così. E dico per fortuna.
Rosaria Capacchione, cronista di nera e di giudiziaria a Napoli e Caserta, vive sotto scorta perché più volte minacciata di morte. Nel 2008 ha pubblicato L'oro della camorra (Bur-Rizzoli), giunto alla quarta edizione.

GIULIO CAVALLI. Caponnetto diceva che la mafia teme, molto più di un ergastolo, il fatto di essere raccontata. E Paolo Borsellino diceva che la mafia è innanzitutto un problema culturale. In questo senso, anche in Lombardia, siamo indietro ere geologiche in fatto di consapevolezza del problema mafia. Direi che siamo ancora in una fase di alfabetizzazione. Lo scenario culturale è quello di un'indifferenza che assume talvolta i contorni del negazionismo. Per questo oggi dobbiamo parlare molto più di mafia che di antimafia. Penso che il mio lavoro, come uomo di parola, sia di raccontare come funzioni la mafia. E fare in modo che le leggi siano viste come un'opportunità e non come una costrizione; come un'opportunità per far valere i propri diritti.

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