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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2011 alle ore 18:08.

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Cento passi per la legalitàCento passi per la legalità

Occorre raccontare quello che è stato, per riuscire a leggere quello che è ora.
La cosa meravigliosa del teatro, la grande forza che rende la parola una delle armi più importanti, è di stabilire un rapporto che non ha mediazioni. Faccio un teatro che non ha trucchi drammaturgici, non ha scenografie, è un monologo, molto spesso è il racconto di una storia. Cerco sempre di avere intorno poche luci e pochi oggetti. La narrazione deve essere più diretta possibile, deve riuscire a raccontare del potere del re nudo. Come facevano Aristofane, gli arlecchini e i cantastorie, i giullari che cinquecento anni fa venivano decapitati. Il fatto, oggi, di essere sotto scorta, a ben vedere è un passo di civiltà notevole. Occorre raccontare la prepotenza spesso patetica del potere, quando cerca di governare con la violenza. Mostrare i mafiosi nella loro piccolezza umana. Raccontare Totò Riina per quello che è, significa lasciare il dubbio che, nella nostra società, non sarebbe nemmeno un amministratore di condominio. Più distruggi la credibilità e lo spessore criminale e intellettuale della mafia, più lanci l'allarme politico. Il teatro, in questo, è un luogo molto politico. E credo che una battaglia come quella della legalità, del rispetto delle regole, in cui oggi più che mai ci viene chiesto di essere partigiani e quindi di dichiarare apertamente da che parte si sta, si possa combattere facendo assumere al teatro un ruolo di alfabetizzazione importantissimo.
Giulio Cavalli, attore e scrittore milanese, è tra l'altro autore di Do ut des, spettacolo teatrale sui riti mafiosi. Minacciato di morte, vive sotto scorta.

FRANCESCO FORGIONE. Due anni fa nel cuore dell'Aspromonte, a Platì, paese che ha fornito forse il maggior numero di narcotrafficanti alla ‘ndrangheta, viene posto un questionario ai ragazzi della seconda media. Tra le domande c'è: "Qual è la cosa che ti dà più fastidio nel tuo comune?". L'85 per cento dei bambini risponde: la caserma dei carabinieri. A Platì non c'è nulla, l'unico futuro che si prospetta per quei bambini è quello di una vita in rapporto con la ‘ndrangheta. Lo stato viene visto solo come un'entità repressiva.
Invece dobbiamo fare in modo che le regole vengano percepite come opportunità. Ma non c'è opportunità, soprattutto al Sud, se non ci sono diritti esigibili: intendo il diritto al lavoro, a una pubblica amministrazione trasparente, alla salute. Per educare alla legalità bisogna far diventare questi diritti "esigibili". Faccio un esempio: in Emilia-Romagna e Lombardia la sanità è efficiente. Se ti rompi un braccio a Bologna o a Lodi la prima domanda che ti fai è: dove devo andare? Se ti rompi un braccio a Reggio Calabria o a Casal di Principe la prima domanda è: a chi mi devo rivolgere? Nella sostituzione tra il "dove" e il "chi", c'è la sostituzione di un sistema universale di diritti esigibili, con un sistema di mediazione clientelare che è l'anticamera del modello mafioso.

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