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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2011 alle ore 15:32.

Nelle vesti di leader del Partito del congresso, era compito di Gandhi ri-conciliare tutte queste fazioni, con le loro richieste contrapposte e i loro conflitti. Un'occasione per agire all'unisono si ebbe nel 1919, quando la po-lizia britannica aprì il fuoco su una folla disarmata che si era raccolta per protestare a Jallianwalla Bagh, un parco recintato nella città di Amritsar, uccidendo centinaia di persone. La reazione fu diffusa e Gandhi lanciò il suo movimento di non-cooperazione, chiedendo ai giudici e agli avvocati di boicottare i tribunali, agli studenti le loro scuole e ai soldati le loro unità, e a chi aveva ricevuto medaglie e onorificenze di restituirle (come fece subito Tagore con il suo cavalierato). Nel tentativo di fermare il movimento, i bri-tannici imprigionarono Gandhi.
Continuarono a farlo di fronte ai suoi atti di sfida, ma ciò non scalfì mi-nimamente la sua influenza. In carcere, Gandhi iniziava a digiunare e la na-zione restava col fiato sospeso finché non acconsentiva a sospendere lo sciopero della fame. Mentre il suo corpo si faceva sempre più esile, osserva Lelyveld, il suo potere politico e spirituale continuava a crescere. Assieme al filatoio a mano, lo sciopero della fame divenne l'altro simbolo distintivo della protesta gandhiana. Nel 1930, la sua genialità nel cogliere i gesti ispi-rati lo portò a guidare una marcia di trecento chilometri dal suo ashram fino a Dandi, sul Mar Arabico, fra le ali di folla accorse lungo la strada per ap-plaudirlo. Con «la bellezza e la semplicità di una fresca visione artistica», scrive Lelyveld, si chinò a raccogliere un pugno di sale sulla spiaggia in se-gno di sfida contro la tassa imposta dai britannici su un bene così umile e indispensabile. Sarojini Naidu lo acclamò come «Liberatore». La polizia ar-rivò con gli sfollagente, ruppero un po' di teste e Gandhi venne ricondotto in prigione nel maggio 1930. Jawaharial Nehru, il futuro leader del Partito del congresso e il primo capo del governo indiano, commentò: «Non so che cosa ci porterà il futuro, ma il passato ha reso la vita degna di essere vissuta e la nostra prosaica esistenza si è trasformata in qualcosa di epico».
I momenti di trionfo portano in sé i semi della rovina. Gandhi, liberato dal carcere nel gennaio 1931, non riusciva più a tenere assieme il movimento con questi gesti, per quanto forti e significativi potessero essere. Stanco e affaticato, il Mahatma si autoimpose una specie di esilio, ritirandosi in un piccolo villaggio dell'India occidentale nell'estate del 1936, ma attorno a lui sorse rapidamente un ashram (Sevagram, o «Villaggio del servizio»). Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, la sua proposta di sostenere lo sfor-zo bellico britannico venne respinta dal Partito del congresso, che non offrì nulla di più di un appoggio condizionato alla concessione dell'indipendenza indiana. L'offerta venne respinta dal governo dei Tory; Churchill commentò che non era diventato Primo ministro per presiedere alla disintegrazione dell'impero britannico. «Andatevene dall'India!» divenne allora il grido di battaglia di un ultimo, duro sforzo per ottenere la libertà dalla Gran Breta-gna. Gandhi venne di nuovo messo agli arresti (nell'ex palazzo dell'Aga Khan, nei pressi di Poona); la sua povera moglie, che continuava a seguirlo fedelmente, sarebbe morta lì.
Il Mahatma venne rilasciato nel 1944 e il governo britannico, esausto per la guerra e ora guidato da un gabinetto laburista, sperava in un compromes-so a cui avrebbero aderito tutte le fazioni indiane. Gandhi partì subito per Bombay per negoziare con Jinnah, che vedeva ora come unica soluzione la creazione di una nazione musulmana separata. Il treno su cui viaggiava Gandhi venne preso a sassate dalla folla, che cercava di impedirgli di fare concessioni; Jinnah rimase però inflessibile e la spartizione dell'India di-venne inevitabile. In tutto il Paese infuriarono rivolte e scontri di piazza fra indù e musulmani. Anziché rimanere nella capitale per le celebrazioni della vittoria che si sarebbero tenute nell'agosto 1947, Gandhi partì per Calcutta (lasciando Nehru a issare la bandiera nazionale sul Forte Rosso e a tenere il suo famoso discorso su «Un appuntamento col destino»), dicendo che le gri-da gioiose di «Jai Hind!» («Gloria all'India!») lo infastidivano.
Una delle ultime e più toccanti sezioni del libro di Lelyveld ci presenta Gandhi all'inizio del 1947 mentre – assieme ai suoi seguaci, ora una piccola banda – cammina a piedi nudi di villaggio in villaggio (quarantasette in tut-to) nella regione a maggioranza musulmana di Noakhali, cantando la canzo-ne di Tagore «Ekla Chalo»: «Se nessuno risponde alla tua chiamata, cammi-na da solo, cammina da solo». L'atto più strano di questo dramma, come e-videnzia Lelyveld, è la scelta, da parte di Gandhi, di un momento simile per il suo ultimo «esperimento con la verità». Richiese la presenza della figlia diciassettenne di un suo nipote, Manu, che si prendesse cura delle sue ne-cessità fisiche: controllare la sua dieta, fargli il bagno quotidiano e il mas-saggio con gli oli, ma anche dormire di fianco a lui sul suo letto da campo, restando il più nuda possibile, così che egli potesse mettere alla prova la propria dedizione al celibato. A quanto pare, pensava che se lui fosse stato in grado di sottomettere gli impulsi animali nel suo corpo, il Paese avrebbe potuto sottomettere la sua bramosia di violenza. Incapaci di cogliere il le-game che Gandhi aveva sempre posto fra sesso e violenza da una parte e a-stinenza e nonviolenza dall'altra, anche i suoi seguaci più devoti rimasero scioccati, e molti se ne andarono.
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