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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2011 alle ore 20:35.

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Tra le questioni filosofiche, ce n'è una che da millenni appassiona i filosofi ma lascia di stucco chi filosofo non è: la questione del realismo. Spesso, ad ascoltare i filosofi che discutono di realismo, i profani si infastidiscono; e capita che battano il pugno sul tavolo per dimostrare che, inconfutabilmente, là fuori una realtà esterna c'è ed è indipendente da noi, checché ne dicano i filosofi. Le possibilità allora sono due: o i filosofi sono una categoria di perdigiorno oppure le cose non sono così semplici.

Oggi questo dubbio è tornato attuale. Quindici anni dopo che sul Sole se ne discusse in un dibattito che lasciò il segno, la questione del realismo filosofico è tornata di attualità a partire da un articolo pubblicato su «La Repubblica» da Maurizio Ferraris, a cui su vari giornali sono seguite molte repliche (non tutte lucidissime, peraltro). La domanda dei profani torna urgente: perché dare tanto spazio a queste ubbie filosofiche?

Per rispondere occorre sgombrare il campo da un duplice fraintendimento, che è sotteso a queste accuse di oziosità. Primo, nella discussione contemporanea sul realismo nessuno intende dimostrare che (sorpresa delle sorprese!) il mondo esterno esiste veramente; ma, d'altra parte, non c'è nemmeno nessuno che ne contesti veramente l'esistenza. Secondo, a nessun filosofo serio verrebbe oggi in mente di ribadire le tesi del vescovo Berkeley, il più stravagante dei filosofi, secondo il quale il tavolo su cui battiamo il pugno esiste solo in quanto viene pensato.

Ma allora di cosa discutono i filosofi quando discutono di realismo? Discutono di varie questioni, variamente connesse e nessuna banale. A una di esse – che appassionò Platone, Aristotele e gli scolastici medievali e ancora occupa i metafisici odierni – si allude in una delle più enigmatiche citazioni della letteratura contemporanea, «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» («La rosa originaria è nel nome, noi abbiamo soltanto i nudi nomi»), con cui il fraticello Adso da Melk suggella la narrazione del Nome della rosa. Tutti sanno che Umberto Eco è tipo giocoso, ma in quel caso non giocava affatto. Piuttosto, nel chiudere il suo capolavoro, Eco alludeva alla questione del «realismo ontologico» o, come si diceva allora, degli «universali». Il problema non era, come detto, se le rose o i tavoli esistano veramente – perché di questo nessuno dubitava – ma che cosa faccia sì che le rose e i tavoli siano, appunto, rose e tavoli. Secondo i realisti tutte le rose e tutti i tavoli sono tali perché condividono essenze comuni; secondo gli antirealisti, le cose sono accomunate soltanto dai concetti mediante cui le descriviamo o addirittura (come pensavano i filosofi echiani Guglielmo di Baskerville e Adso da Melk) dai nomi che attribuiamo a esse. Naturalmente queste disputa ebbe conseguenze importanti, perché dall'impostazione realista e da quella antirealista discendono concezioni molto diverse del linguaggio, della logica e della scienza.

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