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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 11:04.
Quando arrivo mi viene mostrata la mia cabina: una stanzetta interna, senza oblò, con l'arredamento scarno e funzionale di una sala d'attesa. I mobili sono inchiavardati al suolo, inchiodati alle pareti, bloccati in posizione tramite cavi. Capisco il senso della precauzione, ma come ogni altra cosa a bordo – gli onnipresenti cartelli di emergenza, i razzi di segnalazione, le scialuppe – sembra parlare di una situazione di disastro potenziale sempre imminente, di una tensione sotterranea che logora anche la calma del porto. Che è tutto fuorché calma.
Al mio arrivo il ponte è occupato dalla black gang – dei funzionari della dogana belga, armati come agenti SWAT, che stanno interrogando un mulettista sospettato di contrabbando. Mi viene presentato rapidamente il comandante, un siciliano taciturno e preciso che vive in Brasile e ha un gemello identico, capitano anch'egli, con cui si dice comunichi telepaticamente dal ponte di comando.
«Benvenuto a bordo», mi accoglie appena sarcasticamente, con l'aria di chi si chiede quale atroce scommessa io abbia perso per finire lì. Io esito; capisce che mi aspetto una presentazione della nave, un'introduzione alla vita a bordo, un discorso di qualche tipo. Ci pensa un po', poi annuncia: «Se vuole può fumare anche in cabina».
Per giorni non mi dirà più niente.
A bordo, oltre a me, ci sono ventisei persone. Gli ufficiali di coperta, che a parte il comandante hanno meno di trent'anni, sono cinque, tutti italiani; si occupano della navigazione e delle operazioni di carico. Il resto dell'equipaggio è filippino o rumeno e segue il funzionamento meccanico della nave. La divisione gerarchica sottende un ribaltamento una volta a terra: nelle Filippine uno stipendio da marittimo permette un tenore di vita molto migliore di quello concesso dalla paga pur più alta di un ufficiale italiano. («Questi a casa sono tutti miliardari», scherzerà spesso il cuoco, italiano, indicando con un coltello i marinai in tute blu coperte di grasso. «Guardali. Tutti miliardari»). I due gruppi mangiano e vivono in zone separate del ponte, socializzano poco e comunicano in un inglese schematico che ricorda i comandi di un linguaggio di programmazione.
Spero di conoscere l'equipaggio durante la prima cena, ma l'atmosfera è circospetta e tesa. I pasti si consumano in fretta, nel silenzio più assoluto ammantato di un'antiquata ritualità – il comandante va aspettato in piedi. Il menu si ripete ogni settimana, con una variazione (dolce e antipasto!) il giovedì e la domenica; ben presto comincerò a tenere traccia del passare del tempo solo così. Il cibo è copiosissimo e pessimo; il cuoco ci terrà a spiegarmi che non è colpa sua, ma del budget che ha per la cambusa. «Cosa c'è di buono oggi?», gli chiederò un giorno. Lui risponderà ridendo: «Di buono? Niente!».
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