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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 11:04.

Ma i doganieri non sono i primi a salire quando attracchiamo nei tre porti africani. Non appena la nave cala la rampa sulla banchina a Dakar – col muggito lentissimo di centinaia di tonnellate di acciaio che si adagiano a terra – ai suoi piedi prende a brulicare una folla di commercianti, procacciatori, amici di amici. Già attraccando li si distingueva accucciati a fumare all'ombra dei contenitori. Si sbracciano per attirare l'attenzione dei marinai, accorrendo a capannello intorno a chiunque parli con un loro concorrente. Offrono SIM locali, marijuana, oppio, puttane; a Banjul affitto una chiavetta internet e compro due bottiglie di whisky; a Freetown propongono anche eroina, diamanti e oro. Offrono anche – quando capiscono che c'è un passeggero – di accompagnarmi in città: in Gambia per farmi da interprete, in Sierra Leone per evitare che mi faccia uccidere. Si resta in porto poche ore, e dopo che a Dakar per poco non perdevo la nave (non mi potevano aspettare), decido di limitarmi a un giro per la città e al massimo un po' di natura.
A bordo le mie uscite sono viste con un misto di invidia – il lavoro in porto è massacrante e senza pause – e perplessità: «Sono posti disperati», mi dicono, e non capiscono cosa possa interessarmi lì. Dal porto, l'osservazione appare sensata: qui la città inizia accanto ai container, impilati sulla polvere compattata con le baraccopoli che si stringono tutt'intorno. A Banjul passo una giornata a bere birra in palazzi color terra, dal soffitto basso, cercando un surrogato di civiltà urbana; a Freetown raggiungo una spiaggia paradisiaca, dopo un viaggio in moto fra vegetazione tropicale e slum ancora segnati dalla mitraglia.
Al contrario che in Gambia, qui la mia guida insiste per non essere pagata; ma quando si rende conto che non ho intenzione di acquistare donne o diamanti si affretta a riportarmi alla nave. Come compenso per la visita esige che compri un regalo per sua figlia, una bambola di plastica alta 60 centimetri, con gli occhi azzurri e la carnagione bianchissima. Quando torno a bordo la luna illumina la sagoma di un enorme baobab su una collina; ai suoi piedi Freetown, con mezzo milione di abitanti, è quasi buia.

Dalla Sierra Leone al Brasile è appena una settimana di navigazione. Dico «appena» come un vecchio lupo di mare; ma forse per l'assenza di punti di riferimento – mare tutt'intorno, persino gli schermi del radar sempre vuoti – quella settimana sembra non passare mai.
È in quei giorni che stringo conoscenza col resto dell'equipaggio. Fatico a capire come possa essere l'avere di fronte decenni di una vita tanto lontana, con il tempo che, come mi ha detto uno di loro, «non sa di niente». Mi trattano con gentilezza e circospezione, come un carico molto particolare che potrebbe esplodere da un momento all'altro. Io bene o male reggo, ma non mi ha stupito sentire di altri passeggeri che all'ultimo hanno perso il controllo. Il tempo è circolare e infinito, scandito dai pasti e al massimo, la sera, dai tornei di ping pong, in cui io, convinto di essere un asso, perdo sistematicamente con un macchinista rumeno che pesa il doppio di me; ma anche lui cede il trono al campione di bordo, un sessantenne filippino che indossa canottiere con stampe a tema religioso. A ogni schiacciata erompe in una risata acutissima che si riverbera per le cabine. Giochiamo dalle cinque alle otto di sera e poi si va a letto, oppure a pescare dai verricelli di ancoraggio di poppa. L'equipaggio filippino ci passa svariate ore, gettando lenze a mano sui cui riagganciano i pesci appena presi nella speranza di acchiappare uno squalo.
Per quanto sia alienante e solitaria, mi dicono che la navigazione non gli pesa: è il periodo di buona. Persino il tempo che non sa di niente è meglio delle venti, trenta, quaranta ore di lavoro consecutivo – sotto la neve o il sole equatoriale – che li vedo fare in porto. Stupendomi dei ritmi, e delle condizioni di pericolo in cui li ho visti lavorare in Africa, una sera chiedo al primo ufficiale se non hanno mai pensato di scioperare. «Non si chiama sciopero, qui», mi dice lui, con l'aria di chi risponde a una domanda idiota. «Si chiama ammutinamento».

A metà Atlantico il clima è pienamente tropicale; quando il caldo lo consente salgo sul ponte superiore, ormai vuoto delle auto, e prendo il sole per ore, appoggiato contro un giubbotto di salvataggio o sdraiato sulla tettoia della scala che porta al posto di manovra di poppa – che ha l'inclinazione quasi perfetta di un lettino. E lì, steso sul metallo caldo mentre la scia si disegna di fronte a me sull'orizzonte piatto dell'oceano, dopo quasi un mese di viaggio avverto una strana forma di comunione – non con "il mare", come forse pensavo all'inizio, ma con la fabbrica galleggiante che mi sta portando.
L'odore dell'oceano non è di salsedine, ma di gasolio e lubrificante; lo sciabordio delle onde è coperto dal muggito del motore che si riverbera nello scricchiolio di tutta la struttura; il sole che cala si riflette sì sull'acqua liscia come olio o increspata di schiuma, ma soprattutto sulla vernice verde del ponte arroventato tutto intorno a me, che al tramonto diventa nero e d'oro. Già; però, dopo un mese di isolamento e tre giorni di ancora a Vitória, con la costa verdeggiante preclusa per ragioni misteriose dalla capitaneria di porto, considero seriamente di scappare a nuoto.
Ma il quarto giorno è quello buono – appena in tempo per il mio volo. Saluto l'equipaggio, già tutto preso dalle operazioni di scarico, con la sensazione di abbandonare degli amici d'infanzia ma senza riuscire a nascondere il sollievo di tornare a terra. In attesa di un autobus per Rio passo il pomeriggio a bere birra osservando un'autostrada; la vista di ogni automobile (tutte quelle persone!) mi provoca una gioia che non avrei potuto immaginare. Non so se questa sia stata una "esperienza"; di certo i tempi lunghissimi, la solitudine in mare, fanno parte di un modo di viaggiare che per millenni è stato normale e che ora non esiste quasi più. Sono a terra da una settimana e già il mese a bordo mi sembra una vita passata. Eppure ripenso spesso alle notti sul ponte di comando, in cui in ogni momento ci sono due persone di guardia. E per ore di seguito non fanno altro che fissare il mare: il cielo stellato sopra di loro, migliaia di tonnellate di merci sotto, una macchina colossale tutt'intorno e nelle orecchie una radio gracchiante che a tratti squarcia il silenzio, con un'informazione di rotta o con i gemiti sommessi di un orgasmo femminile.

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