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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2014 alle ore 14:59.
L'ultima modifica è del 14 maggio 2014 alle ore 16:44.
Manca poco più di una settimana alle elezioni e già non ne potete più? Tranquilli: a quanto pare non siete i soli. Fortuna vuole che il principale test elettorale del 25 maggio prossimo sia quello delle Europee e allora ecco che il dissenso pervade da un capo all'altro il Vecchio Continente senza soluzione di continuità. Te ne accorgi dai titoli dei giornali, ma anche da quelli delle canzoni: in Spagna per esempio spopola «Ratonera», hit degli Amaral, band di Saragozza passata con disinvoltura in quasi vent'anni di attività dal folk rock al pop latino. Ascoltatela e guardate il video: se non è un salto di qualità dalla canzone politica alla canzone anti-politica poco ci manca. Filone meno noto, quest'ultimo, che vanta comunque una tradizione importante. Ve ne offriamo di seguito una guida essenziale che speriamo valga come antidoto alla noia dei dibattiti pre-elettorali.
Amaral, «Ratonera»
La politica per Eva Amaral e i suoi quattro sodali è una «trappola per topi» («ratonera», appunto). E allora perché non smontarla pezzo per pezzo con il cacciavite dell'ironia? È esattamente quello che fa il video shock della loro nuova hit che denuncia, in formato cartoon, le violenze di cui sono vittima i politici (sic!). Ce n'è anche per la Merkel, Berlusconi e Barroso, ritratti come tossici. Eggià: adesso c'è l'Ue e il bersaglio diventa internazionale. (guarda il video)
Manu Chao, «Clandestino»
Se vuoi scrivere una canzone anti-politica che suoni credibile, devi metterti dalla parte del torto, come la chiamava Bertolt Brecht. Alla fine degli anni Novanta dimostrava di saperlo fare benissimo José Manuel Thomas Arthur Chao, in arte Manu Chao, massimo esponente del genere patchanka che fece da colonna sonora al nascente movimento No Global. «Solo vado con il mio dolore/ sola va la mia condanna/ Il mio destino è correre/ per eludere la legge». Il destino di un clandestino.
Giorgio Gaber, «Io non mi sento italiano»
Un Gaber postumo (l'album in questione uscì nel gennaio 2003, poche settimane dopo la scomparsa del cantautore) per quella che forse è la più bella canzone anti-politica del nostro songbook. Brano, quello scritto insieme con Sandro Luporini, che si rifà direttamente a «Le déserteur» di Vian con la formula della lettera al presidente della Repubblica aggiornata all'Italia del Terzo Millennio. Inchiodata in un paradosso: «Io non mi sento italiano/ ma per fortuna o purtroppo lo sono». C'è dolore che nasconde amore. Amore tradito.
Caparezza, «Legalize the Premier»
Correva l'anno 2011, la stagione del berlusconismo viveva la sua estate indiana e la nostra canzone di anti-politica un momento di grande vivacità. Caparezza, in tandem con il rasta-man siciliano naturalizzato giamaicano Alborosie, pungeva con ispirazione: «Sono un presidente in erba/ ma me ne fotto della maria/ Io lotto ma per la mia legalizzazione».
Fabri Fibra, «Pronti, partenza, via!»
Anche la deriva burocratica dello Stivale ha il suo arrabbiato cantore. È il rapper marchigiano Fabri Fibra che inveisce contro la «burocrazia/ L'Italia si squaglia come burro e pazzia», al ritmo di «Coda/ timbro/ firma/ passa». Nel dicembre del 2012, quando il pezzo uscì, lanciava un curiosissimo messaggio subliminale: «Monti via!». Non lo sapeva, ma la sua era una specie di profezia. Boris Vian, «Le déserteur»
Probabilmente il pezzo capostipite del genere della canzone anti-politica: lettera al presidente della Repubblica di un cittadini francese che rifiuta di partire per il fronte, adducendo una serie di motivazioni di buonsenso. Prima fra tutte: «Non sono un assassino». Uscì il 27 maggio del 1954, giorno della disfatta francese nella guerra d'Indocina. Della serie: patriottismo a chi? Memorabile anche la versione italiana interpretata da Ornella Vanoni.
Barry McGuire, «Eve of Destruction»
Gli anni Sessanta furono l'âge d'or della canzone di protesta. Se proprio non si vuole scomodare Dylan, Baez & co. tanto vale ripiegare su questo inno antipatriottico portato al successo da Barry McGuire nel 1965, quando stare dalla parte degli States significava difendere le ragioni della guerra in Vietnam. E giustificare il paradosso: «Sei abbastanza grande per uccidere, ma non per votare». Testo attualissimo a considerare i fatti di Ucraina ma anche l'odio negli stadi.
Sex Pistols, «God Save the Queen»
Inno d'Inghilterra tutto al contrario quello con il quale Johnny Rotten e soci nel 1977 diedero fuoco alle fondamenta di Buckingham Palace. «Dio salvi la Regina», certo, ma anche il «regime fascista» di cui è garante, almeno secondo l'analisi nichilista e barricadiera del punk inglese della prima ora.
The Clash, «London Calling»
Alla fine degli anni Settanta l'immaginario della Swingin London sembrava lontano anni luce. L'immagine «cool» della capitale britannica era stata spazzata via dalla rivoluzione punk ed ecco che dalle rive del Tamigi arrivava un richiamo per tutti i diseredati del mondo. Una chiamata alle armi a sovvertire i falsi miti del capitalismo imperante.
Public Enemy, «Fight the Power»
Rinfreschiamo le idee a tanti adepti hip hop dell'ultima ora: il grado zero della cultura di strada sta tutto qua, in questo inno rap contro l'ordine costituito, anno di grazia 1989. Inutile girarci troppo intorno, strizzare l'occhio verso il politico che ci accarezza e giocare a fare i bravi ragazzi: il potere va combattuto, punto e basta. E non c'è spada più affilata di una rima baciata.
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