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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2010 alle ore 16:22.

TRENTO - Non c'è un attacco premeditato dei ‘mercati' nei confronti della zona euro e della moneta unica. Piuttosto c'è una vulnerabilità dell'eurozona, dovuta soprattutto alle dimenssioni enormi che il debito e il deficit hanno raggiunto in alcuni paesi membri.

È Simon Johnson che parla, ex capo economista del Fondo monetario internazionale e oggi docente di sviluppo imprenditoriale al Mit Sloan School of management, oltre che consulente dell'ufficio budget del congresso americano. Co-fondatore del sito BaselineScenario.com, non perde occasione in giro per il mondo per spiegare le cause della crisi finanziaria del 2008. Al Festival dell'Economia di Trento ha illustrato "il potere di Wall Street" partendo dal suo ultimo libro: "13 bankers", non ancora tradotto in italiano, in cui spiega "il ciclo della rovina" avviato con la deregulation di Reagan e proseguito fino all'amministrazione Obama. E avverte: «Sono ancora tutti lì».

Un ciclo che ha permesso alla finanza Usa di accumulare un potere di influenza enorme sulla politica, condizionandone le decisioni fondamentali sui mercati. Il principio-base del meccanismo è il ‘to-big-to-fail', troppo grandi per fallire, che incoraggia le banche più grandi «di assumere rischi molto elevati, con un vantaggio di mercato a spese dei consumatori». In sintesi, quando una banca supera una certa soglia dimensionale, pari più o meno a quella della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena – come ha sottolineato Stefano Lepri, giornalista de La Stampa che ha introdotto Johnson – non ci sono più vantaggi di scala per i clienti e i consumatori, ma solo grandi profitti per gli azionisti e per chi la dirige.

«Tanto che ora anche gli hedge fund puntano a diventare ‘to-big-to-fail'. Un modo per sopravvivere al ciclo negativo». Anche se, aggiunge Johnson, «superare questo principio è necessario ma non sufficiente». E non è neanche facile: come ha ricordato l'economista, un progetto di legge presentato al Congresso è stato bocciato, «grazie al potere dei contributi finanziari» che la grande finanza è in grado di far affluire alla politica, a prescindere dallo schieramento al governo.

Tornando all'Europa, Johnson non nega che «il mercato dei Cds possa essere utilizzato in modo speculativo contro l'euro, ma ciò che vedo io – precisa - è che le vendite sono governate soprattutto dal debito». Le risposte con cui le istituzioni europee hanno affrontato la crisi «sono state confuse e incomplete e ciò si è tradotto in un vantaggio per chi voleva sfruttare la situazione dei paesi della zona euro più vulnerabili». Per questo motivo – ritiene l'economista – bisogna partire dalle politiche economiche.

Commentando poi la proposta del commissario Ue al mercato interno Michel Barnier di creare uno fondo finanziato dalle banche che garantisca i depositi in caso di bancarotta, Jonhson spiega: «Forse in Europa non è così, ma dall'esterno è evidente che serve un'autorità che agisca a livello di Unione europea. Gestire i possibili fallimenti a livello nazionale non ha alcun senso. E' una debolezza». In ogni caso, Johnson mette in guardia dal rischio che la gestione a livello comunitario possa dare al mercato un segnale analogo al principio ‘troppo-grandi-per fallire'. «Se il segnale è che i creditori saranno protetti in ogni caso, qualunque cosa accada, potrebbe spingere le banche ad assumere risci sempre maggiori».

Più in generale, l'Unione europea «dev'essere proattiva. Ci sono misure che si possono adottare per proteggere i singoli stati. Ma ci vuole tempo. Bisognerà valutare se è necessario ristrutturare il debito dei paesi più deboli. L'intervento delle scorse settimane (il piano da 750 miliardi di euro in tandem con il Fmi, ndr.) è servito a scongiurare il panico, ma non bisogna cullarsi troppo. Bisogna intervenire prima e prevenire le situazioni».

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