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Viaggio nel quartiere Mirafiori, mito sbiadito della Torino fordista. Storia per immagini

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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2010 alle ore 07:49.

«Adesso vuole vedere che faremo la fine del Lingotto? Ma io al posto della fabbrica un centro commerciale mica lo voglio». Mentre rientra dal mercato, Silvana Giaccone, 62 anni di cui quasi 40 vissuti nel quartiere simbolo della Torino fordista, guarda al di là di corso Unione Sovietica e corso Agnelli, indica la facciata bianca dove fino a qualche anno fa campeggiava il logo blu della Fiat e sospira: «Quando sono arrivata qui il piazzale era sempre pieno di macchine, adesso hanno costruito case e giardini perché i parcheggi non servono più».

La signora Silvana ha le borse piene, perché nel week end arriveranno le sue due nipoti con un biglietto in tasca per il concerto degli U2 del 6 agosto, allo stadio Olimpico: «A me fa piacere, ma qui ormai si parla solo di musica». In realtà a Torino oggi si parlerà anche del futuro della Fiat, con il tavolo che questa mattina si apre in Regione. Ma nel quartiere che più di tutti ha famigliarità con le liturgie sindacali, la fiducia non abbonda: «I tavoli si fanno se si ha qualcosa da offrire in cambio», osserva con disincanto Corrado Ferro, 78 anni, entrato in Fiat nel '51 da colletto bianco e poi passato al sindacato, dove è diventato segretario regionale della Uil. «Oggi le istituzioni che cosa avranno da offrire a Marchionne? Poco o niente, in confronto a quello che può mettere sul tavolo un paese come la Serbia».

A dire il vero tra le case popolari di via Dina, Kragujevac non è altro che «un posto dove la gente viene sfruttata più che da noi», come dice amaramente Sergio Settimo, ex giovane di Mirafiori che dopo qualche anno di carcere ha ottenuto la semi-libertà e dà una mano in parrocchia, ma quel che si percepisce chiaramente è l'impotenza. Di fronte a un processo ineluttabile, partito vent'anni fa e che periodicamente sembra approdare al punto di svolta. A Mirafiori gli ultimi raggi di sole si sono visti nell'estate 2006, quando in piena cura Marchionne è stata avviata la nuova linea per la Punto e da un angolo dello stabilimento è stato ricavato il Motor village, grande concessionario con cui la fabbrica sembrava improvvisamente voler abbattere i suoi muri e per la prima volta aprirsi al quartiere.

Poi la nebbia, sempre più fitta. Che dalla grande fabbrica arriva a lambire quei pezzi di città che la circondano: corso Traiano con i suoi palazzi medio-borghesi, l'asse di via Dina con le casette Fiat e il grande complesso salesiano degli istituti Edoardo e Virginia Agnelli, piazza Dante Livio Bianco e il nucleo di palazzoni tirati su a partire dagli anni '50, tutti a base di due camere, tinello e cucinino. «Ormai la Fiat non è più la protagonista indiscussa del passato – osserva don Gianni Bernardi, da 25 anni parroco di Gesù Redentore, chiesa simbolo del boom edilizio degli anni '60 –, ma sarebbe un errore sottovalutarne l'importanza». I simboli forse hanno preso il posto della realtà delle cose, ma «la Fiat – prosegue – resta centrale per tutto l'indotto, diretto e indiretto. Che alla fine tutto permea, dagli equilibri economici a quelli sociali. A lavorare a Mirafori qui sono rimasti in pochissimi, ma la Fiat, Sergio Marchionne, la Serbia e Pomigliano sono sulla bocca di tutti.

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E la gente si chiede: che senso avrebbe vivere in questo quartiere se chiude la Fiat?». Interrogativi amari, che svelano l'orgoglio di un quartiere che si vede sempre più invecchiato, sbiadito. I tre bandi per l'attrazione di nuove imprese nell'area acquistata dagli enti locali andati deserti, la fugace apparizione dei fasti di Torino 2006 che qui ha lasciato solo un palazzetto per il ghiaccio, lo stesso Motor village, «sono solo tamponi che lasciano il tempo che trovano», dice ancora don Gianni. Il problema numero uno resta naturalmente il lavoro, e chi cerca di risolverlo fatica, più della media. Come il centro lavoro del Comune di Torino, che grazie ai fondi del programma Urban 2 ha deciso di insediare proprio in via Carlo Del Prete, a due passi dalla grande fabbrica: uno strumento innovativo, che abbina i tradizionali servizi di sportello ai percorsi di ricollocazione; dal 2007, quando è stato inaugurato, fino al 31 maggio scorso, 18mila persone hanno portato curricula, consultato annunci, chiesto informazioni. Alcune centinaia sono state ricollocate, e per 186 di loro è saltato fuori un contratto di un anno o addirittura a tempo indeterminato: solo 19 hanno trovato uno spazio nel metalmeccanico, però, a dimostrazione di un mercato contratto, quasi impenetrabile.

«Ciò che fa più soffrire – confessa Lorenza Roggio – è vedere operai specializzati nel pieno della loro carriera, magari con vent'anni di esperienza e stipendi da 2mila euro al mese, costretti ad arrendersi a una busta paga che non arriva alla metà. Ma non c'è molto da scegliere». «La sensazione è che qui si stia creando un vuoto, economico ma anche culturale», abbozza Renato Bergamin, che da presidente della fondazione cascina Roccafranca coordina un posto strano, bellissimo, un ex fabbricato agricolo completamente restituito al quartiere dopo vent'anni di degrado – sempre grazie ai fondi del programma Urban 2 – che oggi dà lavoro a 20 persone grazie a un ecomuseo, un centro studi, una biblioteca e una "piola", omaggio alle osterie di un tempo. Proprio qui, nelle sale chiuse non da muri ma da ampie vetrate, in questi giorni è allestita una mostra fotografica dedicata alla Mirafiori di ieri e di oggi: decine di scatti, spesso prelevati dagli abum di famiglia, «intorno ai quali si è sviluppato un interesse e un'emozione che forse non ci aspettavamo neanche: qui i legami con il passato sono intatti, e la fabbrica in un modo o nell'altro ne fa sempre parte».
marco.ferrando@ilsole24ore.com

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