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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2010 alle ore 17:22.
Dalla "Finanziaria omnibus", che nella storia recente ha preso addirittura la forma di un articolo unico con 1.400 commi, alla nuova "legge di stabilità" versione light, in cui al posto delle misure compaiono numeri e tabelle. È una trasformazione non da poco quella che ha vissuto la legge fondamentale che governa i nostri conti pubblici. Quest'anno, con il via libera da parte del Consiglio dei ministri alla legge di stabilità in versione prevalentemente "tabellare", si realizza nel concreto la riforma della contabilità e finanza pubblica approvata nel novembre dello scorso anno dal Parlamento. Si volta pagina.
L'intento è chiaro: sottrarre la sessione di bilancio al rituale e spesso avvilente balletto degli emendamenti di varia di natura che, per comune responsabilità del parlamento e del governo di turno, hanno finito per snaturare l'impianto di una riforma nata nel lontano 1978 (la legge "468") proprio per rendere più governabile e trasparente un bilancio pubblico ingessato e sostanzialmente poco adattabile alle mutate stagioni della politica economica.
È una lunga marcia, questa della Finanziaria, che approdava in Parlamento a ottobre e che negli estenuanti tre mesi della sessione di bilancio veniva sezionata, frantumata in grandi e piccoli pezzi quanti erano le materie su cui le maggioranze e le lobby di turno esercitavano la loro pressione. Si perdeva in sostanza di vista il disegno complessivo per privilegiare le spinte corporative, gli interessi localistici ed elettorali. Una sorta di gara in cui ognuno cercava di lasciare un segno tangibile della propria influenza, e di ottenere risultati da tradurre in voti e consensi. Una vera e propria alluvione di emendamenti (3mila, 4mila, fino a 6mila) si abbatteva regolarmente sulla Finanziaria, così da trasformare la disscussione sul bilancio pubblico, uno dei momenti più rilevanti di ogni democrazia parlamentare, in una sorta di gran suk, una fiera dello scambio e del baratto.
Il risultato? Il raddoppio del debito pubblico negli anni Ottanta, fardello che ancor oggi pesa come un macigno sull'intera economia e sulle future generazioni. Debito che nel 1982 era al 66,4% del Pil e che salirà nel 1992 al 100,8%. La media nel decennio è stata di 4,4 punti l'anno, il 44,4% nel totale È il decennio dell'«assalto alla diligenza», dell'aggressione sistematica alle finanze statali, peraltro concepita spesso in una logica che oggi si definirebbe "bipartisan".