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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2013 alle ore 09:59.

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Haruhiko Kuroda, il nuovo governatore della Banca del Giappone, ha lanciato una rivoluzione nella politica monetaria del Sol Levante, mettendo fine a vent'anni di cautele della Banca centrale, che si era dichiarata impotente contro la deflazione. L'obbiettivo del primo ministro Shinzo Abe – un'inflazione al 2 per cento nel giro di due anni – è ambizioso e Kuroda ora ha un piano audace per centrarlo. Il dubbio è se questo piano funzionerà. La mia risposta è che da solo no, non funzionerà. Funzionerà se il Governo di Tokyo accompagnerà queste misure con radicali riforme strutturali.

Il 4 aprile la Banca del Giappone ha annunciato il varo di misure di «espansione quantitativa e qualitativa», con la promessa di raddoppiare la base monetaria e più che raddoppiare la scadenza media dei titoli di Stato giapponesi acquistati dalla Banca centrale. La base monetaria crescerà al ritmo medio di 60-70mila miliardi di yen all'anno (460-540 miliardi di euro, il 13-15 per cento del prodotto interno lordo) e la scadenza media dei titoli di Stato giapponesi detenuti dalla Banca del Giappone salirà da 3 a 7 anni. Inoltre la Banca centrale «continuerà con la politica di espansione quantitativa e qualitativa […] fintanto che sarà necessario».

Non è «buttar giù denaro dall'elicottero», perché l'intento è quello di invertire l'espansione monetaria una volta che l'economia sarà ripartita. Non è un puro e semplice acquisto di attività estere, come ha fatto la Banca nazionale svizzera. È invece, per usare le parole di Gavyn Davies, presidente della Fulcrum Asset Management, «una manipolazione del bilancio interno di proporzioni colossali», pensata per incoraggiare il settore finanziario a ridurre la dipendenza dai titoli di Stato e far salire i prezzi delle attività reali. tuttavia, un cambio più debole è sicuramente una delle conseguenze auspicate.

Perché potrebbe funzionare? Perché il Giappone soffre di un eccesso di risparmio strutturale nel settore privato. Le aziende accumulano troppa liquidità. La politica annunciata potrebbe cambiare questa situazione, almeno temporaneamente, in due modi, combinati fra loro. In primo luogo perché abbasserebbe il tasso di cambio reale e renderebbe potenzialmente più facile al Giappone esportare il suo eccesso di risparmio incrementando il surplus delle partite correnti. In secondo luogo, perché facendo diventare negativo il tasso di interesse reale e incrementando la ricchezza reale potrebbe far crescere gli investimenti e ridurre i risparmi.

Certo, nella migliore delle ipotesi tutto questo funzionerebbe solo a breve termine. Nella peggiore delle ipotesi potrebbe destabilizzare le aspettative di inflazione in modo così pericoloso da spingere il Giappone da una situazione di deflazione a una situazione di inflazione altissima, senza fermarsi a lungo in uno stadio intermedio. I giapponesi potrebbero decidere che l'obbiettivo del Governo è impoverirli brutalmente riducendo il valore reale dei loro risparmi (oggettivamente insostenibili). Se, mossi da questa paura, dovessero decidere di abbandonare lo yen le autorità si troverebbero in un vicolo cieco, perché non potrebbero reagire alzando i tassi di interesse senza devastare lo stato delle finanze pubbliche. Potrebbero addirittura dover ricorrere a controlli dei cambi.

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