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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2010 alle ore 07:46.

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LOS ANGELES. Solo il risentimento verso la Cina è apparentemente riuscito a unire democratici e repubblicani in parlamento. Ieri sera la Camera era sul punto di autorizzare il governo a imporre sanzioni commerciali contro i «paesi che mantengono intenzionalmente basso il valore della propria valuta», un implicito riferimento a Pechino e alla sua politica valutaria «dannosa per le esportazioni americane».

Si tratta di una misura vaga dal linguaggio annacquato rispetto a una versione precedente (si parla infatti di un'autorizzazione e non di un obbligo a imporre sanzioni) e senza molte speranze di essere approvata in Senato o firmata dal presidente Obama; arriva anche a un mese dalle elezioni di midterm, in cui molti deputati dovranno fare i conti con un elettorato esasperato dall'alta disoccupazione e dallo stallo della crescita economica. Ma l'infiammata retorica parlamentare riflette inevitabilmente la crescente tensione tra le due superpotenze mondiali.

Pechino ha risposto ieri in modo conciliante, proclamando proprio a pochi minuti dal voto alla Camera Usa che consentirà maggiore flessibilità allo yuan e migliorerà la gestione del cambio nei confronti dei suoi partner commerciali. «Consentiremo alle forze della domanda e dell'offerta di giocare un ruolo decisivo nella determinazione del tasso di cambio», ha detto ieri la Banca centrale cinese. Ieri lo yuan ha toccato un altro record contro il dollaro, salendo a quota 6,6868 e realizzando un apprezzamento complessivo dell'1,6% negli ultimi 12 giorni. Il dollaro è sceso anche contro l'euro, a 1,3636, in anticipazione di nuovi interventi espansivi della Federal Reserve sul mercato obbligazionario.

È ormai da tre mesi che la People's Bank of China sta lasciando salire, seppur lievemente, il valore della sua moneta sottovalutata, ma l'apprezzamento è considerato troppo lento e insufficiente dagli Stati Uniti: secondo le stime del Fondo Monetario lo yuan è sottovalutato del 27%, secondo altri economisti addirittura del 40 per cento. Lo yuan ha comunque guadagnato il 2,1% dal 19 giugno scorso, quando la Cina per la prima volta decise di rendere più flessibile il cambio. Ma molti parlamentari americani restano convinti che l'apprezzamento delle ultime settimane sia solo un espediente per pacificare il parlamento Usa senza intenzione di cambiare radicalmente il corso della politica valutaria.

Pechino si sta muovendo in modo cauto e graduale per evitare che un eccessivo apprezzamento della sua valuta possa far scendere troppo rapidamente le esportazioni e creare disoccupazione e instabilità sociale: «Non si può nemmeno immaginare quante fabbriche finirebbero in bancarotta, quanta gente perderebbe il lavoro», ha detto la scorsa settimana il primo ministro Wen Jiabao alle Nazioni Unite riferendosi a un possibile apprezzamento del 20 per cento. La Cina ha anche affermato in passato che l'apprezzamento dello yuan e il conseguente deprezzamento del dollaro in ogni caso «non farebbero nulla per risolvere il problema del deficit commerciale e della disoccupazione Usa».

A differenza di altri paesi come la Germania o il Giappone, il deficit commerciale Usa con la Cina continua a salire non solo per l'aumento delle esportazioni cinesi ma anche per il calo di quelle americane. Il disavanzo ha raggiunto i 119 miliardi di dollari nei primi sei mesi 2010.

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