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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2010 alle ore 20:21.

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SHANGHAI. La Cina archivia definitivamente le misure espansive anticrisi varate dopo il terremoto finanziario globale del 2008 e, per la prima volta dopo quasi tre anni, stringe i cordoni della politica monetaria. Perché, dopo tanto parlare di bolle speculative, surriscaldamento, inflazione, la People's Bank of China ha alzato il costo del denaro proprio adesso?

In assenza di spiegazioni o di commenti ufficiali non resta che lavorare sulle ipotesi. A giudicare dall'attuale quadro congiunturale cinese, le ragioni che hanno spinto la banca centrale del Dragone a varare la prima stretta monetaria dal dicembre 2007 possono essere molteplici.

La prima è legata all'economia reale. Venerdì Pechino annuncerà i dati sul prodotto interno lordo del terzo trimestre 2010. Probabilmente, osserva la maggior parte degli analisti, il tasso di crescita dell'economia cinese è talmente robusto che la Pboc ha pensato bene di giocare d'anticipo chiudendo subito i rubinetti del credito.

La seconda è legata all'equilibrio del mercato monetario. Oggi, dopo due anni di politica monetaria espansiva (se non addirittura ultra-espansiva, come nei primi mesi del 2009), i tassi d'interesse reali cinesi sono negativi. Ma questa, a lungo andare, è una situazione pericolosa perché corrobora le aspettative d'inflazione, stimola un eccesso di investimenti e gonfia la bolla immobiliare.

Quest'ultima, infatti, in Cina è il combinato disposto di una crescita ipertrofica della massa monetaria e di tassi reali sui mutui negativi. Il rialzo dei tassi, quindi, dovrebbe contribuire a riportare sotto controllo la tanto temuta bolla speculativa del mattone cinese in due modi: alzando gli oneri sui mutui immobiliari; e spostando parte del risparmio domestico dagli investimenti immobiliari su depositi e titoli di Stato.

La terza ragione è legata all'inflazione. Venerdì, oltre al Pil, Pechino annuncerà anche il dato dell'inflazione di settembre. Dopo i recenti aumenti dei prezzi dei beni alimentari, la banca centrale cinese - sebbene sia solitamente restia a stringere il credito per contrastare la volatilità delle derrate agricole – probabilmente ha ritenuto opportuno lanciare un segnale per evitare il rischio di trascinamento sui corsi del non-food.

La quarta ragione potrebbe essere legata al recente boom delle riserve valutarie. A fine settembre, il tesoretto in moneta pesante accumulato da Pechino ha raggiunto quota 2.650 miliardi di dollari, registrando un incremento trimestrale record di 194 miliardi di dollari.
Una tale, abnorme lievitazione delle riserve contribuisce ad aumentare la massa monetaria domestica, poiché gran parte della valuta estera in ingresso viene acquistata dalla banca centrale a fronte di emissioni di yuan che vanno ad ampliare il credito in circolazione. Un costo del denaro più alto dovrebbe aiutare le autorità monetarie a tenere sotto controllo questo processo di espansione.

Ma l'aumento dei tassi d'interesse incorpora in sé anche dei rischi. Il primo è che l'incremento del costo del denaro si trasformi in un colpo basso all'economia reale. Il secondo è che il rialzo dei tassi d'interesse reali metta in difficoltà i debitori più deboli (e di questi tempi in Cina se ne contano un'infinità, soprattutto a livello locale) che, approfittando dell'abbondante liquidità a buon mercato, negli ultimi due anni si sono esposti con le banche per realizzare progetti di incerto ritorno economico.

Il terzo è un aumento indesiderato dei flussi di capitali esteri verso la Cina, negli ultimi mesi già molto robusti perché gli investitori hanno continuato a scommettere sulla rivalutazione dello yuan. Già, lo yuan. Che effetto avrà l'aumento dei tassi sulle sue quotazioni future? Probabilmente, visto che il tasso di cambio della moneta cinese non è determinato dalle forze di mercato ma solo dalle volontà della Pboc, l'impatto sarà nullo.

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