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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2010 alle ore 07:55.

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Sono da rottamare. No, sono preziose al punto da essere insostituibili. Quando si parla di fondazioni bancarie non esistono le mezze misure. E sono sempre al centro dell'attenzione. Anche oggi, alla Giornata del risparmio che si svolge a Roma, gli attesi interventi del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, del governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, del presidente dell'Abi Giuseppe Mussari e del presidente dell'Acri Giuseppe Guzzetti non potranno evitare di affrontare la questione del momento: quanto a lungo le fondazioni potranno svolgere la funzione di azionisti di riferimento delle banche? E ancora: le regole che ne disciplinano l'attività sono ancora valide o vanno aggiornate?

Da una parte, infatti, c'è chi sostiene che le fondazioni hanno fatto il loro tempo poiché l'attuazione delle norme di Basilea 3 le costringerà a diluire le partecipazioni nelle banche. Il flusso dei dividendi è destinato a inaridirsi e per le fondazioni sottoscrivere gli aumenti di capitale che potrebbero rendersi necessari per rispettare i parametri sarà più difficile. Non solo. Negli ultimi tempi quella "stabilità" e quella "lungimiranza" tanto apprezzate nelle fondazioni-azioniste hanno lasciato un po' a desiderare. Le recenti vicende di governance di Intesa Sanpaolo e di Unicredit hanno restituito alle cronache comportamenti dei gruppi dirigenti (non tutti per fortuna) abbastanza deprimenti, ispirati da logiche politiche poco consone alla buona gestione delle banche. La defenestrazione di Enrico Salza dalla presidenza del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, la spaccatura nella Compagnia di San Paolo, gli scomposti interventi del sindaco di Torino Sergio Chiamparino avevano segnalato che la voglia delle fondazioni di riprendersi il potere e le luci della ribalta stava crescendo. Anche in Unicredit il licenziamento di Alessandro Profumo voluto dal fronte padano-tedesco delle fondazioni e dei consiglieri guidati dal presidente Dieter Rampl è stato gestito in modo maldestro. Si può ammettere che gli azionisti e il cda decidano di far fuori un manager perché non porta i risultati attesi o perché si muove in modo autoreferenziale, senza informare il board delle sue iniziative. Ma non è un bello spettacolo vedere che sindaci interventisti dettano il percorso, che il cda non si è preoccupato di trovargli un sostituto, che vengono scelti i dirigenti più vicini allo stesso Profumo (che cosa facevano prima? Remavano contro?), che il direttore generale viene nominato dopo un balletto estenuante (prima uno solo, poi due, poi ancora uno solo), che al reprobo Profumo viene concessa una liquidazione (40 milioni) senza precedenti e senza convincenti giustificazioni, come ha ben documentato Patrick Jenkins sul Financial Times di martedì.

La responsabilità principale di queste poco edificanti vicende va ricercata nei gruppi dirigenti di alcune tra le maggiori fondazioni, guidate da personaggi in vista come Angelo Benessia, Fabrizio Palenzona, Paolo Biasi, Dino De Poli, Andrea Comba. Tutti navigati uomini di potere che però hanno messo in grave difficoltà le banche di cui sono i principali azionisti.
Sul fronte opposto c'è invece chi sostiene che l'Italia non può rinunciare a questi "soci stabili" del sistema bancario: non esiste un'alternativa concreta alle fondazioni. Non ci sono privati abbastanza liquidi per entrare con quote significative nelle banche. L'azionariato diffuso non appartiene alla cultura italiana. E sarebbe antistorico un ingresso dello stato nel capitale pochi anni dopo che si è completata la privatizzazione. Mettere nell'angolo le fondazioni, magari costringendole a cedere sul mercato le partecipazioni nelle banche, significherebbe spianare la strada ai capitali stranieri. Ne è perfettamente consapevole anche il Tesoro dove, nonostante le aspre polemiche di pochi anni fa, il ruolo delle fondazioni come azionisti stabili è pienamente riconosciuto. Certo qualche "deviazione" c'è stata. Capita che qualche presidente ogni tanto si creda un gestore di hedge fund e vada a mettere i soldi là dove avrebbe potuto fare a meno di investire. Ma è il prezzo dell'autonomia e non si può certo dire che, in generale, le fondazioni si comportino come speculatori, anzi. Quindi non è il caso di pensare a modifiche delle regole. Almeno per ora. Il check-up sollecitato con insistenza dal presidente delle Generali Cesare Geronzi può aspettare. Delle fondazioni-azioniste probabilmente può fare a meno (e magari ne farebbe volentieri a meno) la società di assicurazioni triestina, non le grandi banche. Che dovranno fare affidamento su quelle anomale e discusse diramazioni della politica ancora a lungo.

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