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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2010 alle ore 15:25.
Il cervello può giocare brutti scherzi, anche quando lo applichiamo alla finanza. I sostenitori della teoria dell'homo oeconomicus lo vorrebbero razionale, capace di massimizzare informazioni e investimenti. La realtà, come ribadito oggi in un convegno sulla finanza comportamentale organizzato dalla Consob a Piazza Affari, è ben diversa.
«Attraverso la risonanza magnetica funzionale - spiega il professore Matteo Motterlini, dell'università Vita-Salute del San Raffaele di Milano - è stato dimostrato che, durante l'acquisto di un'azione o di un bond, la parte di cervello attivata non è quella pre-frontale» che ci distingue come esseri umani evoluti. «Bensì, quella limbica, che cioè "condividiamo" con i mammiferi e rettili. Nella scelta di un titolo, per esempio, viene interessato il centro della ricompensa - ricco di dopamina - che normalmente si attiva nelle attività legate al sesso, alle droghe o alle patologie del gioco d'azzardo». Insomma, l'impulso decisionale non è di pertinenza della parte del cervello più "razionale", evoluta. Tutt'altro: viene coinvolta la zona più "istintiva", ancestrale.
Ciò detto, è chiaro che l'effetto-istinto può giocare brutti scherzi; può indurci in mille errori nelle nostre strategie di portafoglio. Abbagli che, in periodi di crisi come l'attuale, possono rivelarsi fatali. È comprovata, per esempio, la tendenza degli operatori a mantenere per troppo tempo i titoli in perdita. Perché un simile comportamento? «Tutti noi - spiega Nadia Linciano, della divisione studi economici della Consob - siamo influenzati dalla avversione alle perdite. Si tratta di un atteggiamento insito nel nostro spirito di sopravvivenza: vogliamo allontanare la sofferenza. Nel caso dell'investimento azionario, il "dolore" della minusvalenza. Così, ritardiamo eccessivamente la vendita. All'opposto, se il titolo sale siamo portati ad anticipare il piacere del guadagno e spesso vendiamo troppo presto». Un bel conundrum: come affrontarlo? «Una soluzione - risponde Enrico Rubaltelli, esperto di psicologia degli investimenti dell'Università di Padova - è quella di prevenire il guaio: vanno fissati sempre livelli di stop-loss e take-profit». Così facendo, nel momento in cui siamo tentati di tenere comunque l'azione che sta crollando abbiamo un "segnale" che ci indirizza su un percorso meno emotivo.
Gli abbagli "emotivi", comunque, non si fermano qui. «In questo periodo, dove le Borse vanno su e giù - ricorda Maurizio Milano, responsabile analisi tecnica di Banca Sella -, il piccolo investitore attivo sugli indici tende a deresponsabilizzarsi: si conforma a ciò che fanno gli altri. La scelta operativa però, proprio perché non autonoma, spesso arriva a trend finito. Con il che si contabilizza la perdita». Un effetto "gregge" che si riscontra in altri casi? «Sui singoli titoli il retail, curiosamente, non segue l'istituzionale: i fondi, per esempio, sono in questo periodo long su Fiat ma i risparmiatori, al contario, comprano azioni in calo come UniCredit. Il motivo? Hanno un approccio in termini "statici": considerano l'aspetto dello "sconto" del titolo, quasi fosse un bene commerciale, senza valutarne le prospettive». E di nuovo, il rischio è minusvalenza.
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