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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2011 alle ore 17:42.

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di Vito Lops
La scorsa estate gli economisti dibattevano sullo spettro mondiale della deflazione. Le misure di austerity a cui molti paesi sono stati obbligati nel 2010 per evitare tracolli di bilancio hanno frenato la spesa e i consumi, raffreddando i prezzi. Oggi, a distanza di tre trimestri, quello spettro non è andato via, ma il suo mantello bianco si è gonfiato. Ora tutti temono, da ogni latitudine (escluso il Giappone) un pericoloso avanzamento dell'inflazione. Il livello dei prezzi (cresciuto nel 2009 post recessivo dello 0,3% nell'area euro) si è portato a fine 2010 oltre il livello di guardia del 2% e, con ogni probabilità, spingerà la Banca centrale europea, a rialzare i tassi ad aprile per la prima volta dopo 23 mesi di stallo.

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Negli Stati Uniti i prezzi sono balzati dell'1,6% ribaltando la deflazione archiviata nel 2009 (quando i prezzi al consumo sono arretrati dello 0,4%). In Cina viaggiano al tasso annuale del 4,9%, motivo per cui la Banca del Popolo da ottobre ha varato due strette monetarie dirette (agendo sulla leva dei tassi di interesse) e due indirette (agendo sulle riserve obbligatorie delle banche).

Nella staffetta inflazionistica, tra le cause principali, la corsa dei prezzi delle materie prime alimentari - causata da un anno di raccolti difficili per via di condizioni climatiche avverse - sta passando ora il "testimone" al petrolio, le cui quotazioni si sono riportate ai massimi degli ultimi 30 mesi, complici le tensioni in Libia e Medio Oriente. Ne consegue che le stime su dove atterrerà a fine 2011 l'indice dei prezzi al consumo continuano ad essere riviste al rialzo.

Ma c'è un'altra componente, oltre a quella derivata da materie prime alimentari e petrolio, a importare inflazione nel mondo. Una componente che, a differenza di quelle fin qui esaminate, preoccupa di più perché pare destinata a non esaurirsi nel giro di qualche trimestre. Ma, considerata la sua natura strutturale rischia di avere un impatto di lungo periodo. Di cosa si tratta? Dell'inflazione importata per effetto del crescente aumento dei salari in Cina.

I nuovi dati, su questo fronte, descrivono la realtà in modo molto chiaro. Lo scorso 5 marzo, il premier cinese Wen Jiabao ha annunciato un piano di aumenti dei salari per sostenere i consumi dell'economia domestica. Nel 2011, per il secondo anno consecutivo, in tutte le 31 province cinesi è prevista una crescita media del monte stipendi, secondo quanto rileva una ricerca di Credit Suisse. Dall'indagine emerge che l'economia cinese potrebbe essere al "punto di svolta di Lewis", la teoria economica elaborata dal nobel Arthur Lewis, secondo cui il momento critico per la crescita di un'economia in ascesa si verifica quando la sua offerta di manodopera eccedente si esaurisce, determinando un aumento di prezzi e salari. Secondo le previsioni, la domanda di lavoratori in Cina supererà l'offerta nel 2014, anno del "punto di svolta". Mentre a detta di Li Wei, un economista di Standard Chartered a Shanghai, l'economia cinese il "punto di svolta" lo avrebbe invece già raggiunto .

In ogni caso, l'aumento dei salari è in corso. Nell'ultimo anno la busta paga dei lavoratori immigrati che trainano il settore delle esportazioni cinesi, disposti a spostarsi da una città all'altra in cerca della migliore offerta, è cresciuta del 40% e dovrebbe continuare a crescere al ritmo del 20-30% annuo nell'arco del prossimo triennio. A quanto pare i lavoratori in Cina stanno diventando sempre più esigenti. Sono pronti a rifiutare proposte di lavoro in cerca di occasioni più remunerative. In base a quanto rileva il settimanale BusinessWeek nella città di Shenzen campeggiano cartelli di reclutamento con tanto di scritta: «High Pay for Urgent Hire» (Stipendi alti per lavoro urgente, ndr).

I salari cinesi stanno salendo anche perché, al confronto con quelli delle economie asiatiche limitrofe, hanno ampi margini di apprezzamento. Secondo gli ulltimi dati a disposizione, la paga media di un lavoratore cinese nel 2009 a Shenzen si aggirava intorno a 235 dollari al mese, un abisso rispetto ai 3.099 dollari di Yokohama, i 1.220 di Seul e gli 888 di Taipei (fonte Japan external trade organization). Numeri che, considerata la forte disponibilità dei lavoratori cinesi a migrare in altre città del paese alla ricerca di remunerazioni più alte, lasciano ipotizzare che l'onda dei salari è destinata ancora a salire nei prossimi anni. Il fenomeno dovrebbe portare inflazione in tutti i paesi occidentali che hanno stretti legami commerciali con la Cina.

Non a caso Next, il secondo più grande rivenditore retail del Regno Unito, ha annunciato il mese scorso che l'aumento degli stipendi in Cina comporterà un aumento dell'8% dei prezzi al pubblico nei prossimi due trimestri. Così come Li & Fung, uno dei più importanti fornitori della catena americana Wal Mart, basato a Hong Kong, prevede per il 2011 un aumento del prezzo dei beni esportati dalla Cina a causa dell'apprezzamento del costo del lavoro nella Repubblica Popolare.

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