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Questo articolo è stato pubblicato il 30 marzo 2011 alle ore 07:52.
Solo la discesa in campo di una cordata alternativa a Lactalis potrebbe convincere l'amministratore delegato di Parmalat, Enrico Bondi, a posticipare l'assemblea degli azionisti di Collecchio fissata per il 14 aprile. Ritardarla avrebbe senso solo di fronte a una contromossa imprenditoriale, per dar tempo a un "cavaliere bianco" di organizzare la sua offerta. Perché ciò avvenga è però indispensabile che la cordata, per la quale sta adoperandosi Intesa Sanpaolo, si costituisca subito e sia guidata da un solido marchio industriale made in Italy, si chiami Ferrero o Granarolo.
Se fosse formata in prevalenza da banche e investitori istituzionali, Bondi dovrebbe arrampicarsi sui vetri per chiedere al consiglio d'amministrazione lo slittamento della data dell'assemblea. Forse non lo farebbe nemmeno. Non solo perché il gigante lattiero francese che detiene il 29% di Parmalat potrebbe contestarne la scelta e adire le vie legali, ma anche perché la risposta al progetto industriale di un'impresa estera non può che essere un altro progetto industriale. L'eventuale coinvolgimento di Ferrero, che non ha sciolto le riserve, non potrebbe che avvenire per via diretta.
L'idea di entrare nell'operazione attraverso un fondo – e le indiscrezioni indicano in Pai un suo possibile alleato – ne farebbe un socio finanziario e non più industriale. Sarebbe un paradosso per Bondi, che ha fatto causa alle banche della vecchia Parmalat, se a salvare l'italianità della nuova fosse una cordata finanziaria. Peraltro non cambierebbe niente negli assetti del gruppo, perché i principali soci di Collecchio sono ancora oggi soggetti finanziari forti (tra cui la stessa Intesa Sanpaolo con il 2,4%). Per Parmalat, poi, sarebbe la legge del contrappasso: la finanza corresponsabile del suo dissesto nel 2003 trasformata in salvatrice della patria nel 2011. Per mettere all'angolo Lactalis non servono soluzioni camuffate, ma una controproposta industriale vera.
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