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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2011 alle ore 11:42.

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Scopriamo le carte. L'ad di Telecom Italia, Franco Bernabé, si gioca la partita per il rinnovo del mandato con quelli che definisce i suoi quattro assi: qualità, taglio dei costi, espansione internazionale, riduzione del debito. La qualità non è misurabile in questa sede, sulle altre tre carte lasciamo parlare i dati di bilancio.
I costi, anzitutto. E qui ci siamo. Bernabé ha preso le redini del gruppo a fine 2007 quando l'incidenza dei costi operativi sul fatturato era vicina al 63%. L'ha ridotta progressivamente fino al 58,6% dell'esercizio appena consuntivato. Meglio di così era difficile fare.

Tenuto conto anche del contesto, in cui nel mercato domestico a soffrire non è solo il mobile (che ha subito un'erosione superiore al 10%), ma anche, seppur in minor misura, il fisso. A fronte di una flessione dei ricavi sul mercato domestico che lo scorso anno è stata del 7,4%, l'azione di taglio dei costi è stata invece superiore all'11%, con un risparmio di 1,3 miliardi. Tant'è che il margine Ebitda organico è sprizzato quasi al 49% sul mercato dell'ex-monopolio. Si può andare oltre? Forse qualcosa è ancora recuperabile quest'anno, ma poi, si rischia il suicidio. Sprechi non ce ne sono più, semmai l'aiuto può arrivare dall'esterno: dal calo dei prezzi della tecnologia e dalla sua evoluzione che porta a semplificare i processi. L'abilità sta nel tagliare più in fretta di quanto flettano i ricavi che sono influenzati dallo stesso trend sui mercati più maturi.

Gli altri due "assi" sono stati pescati giusto all'ultima mano. Partiamo dall'esposizione internazionale. Nel 2007 i ricavi internazionali del gruppo erano il 28,6%, nel 2009 erano scesi al 24,6%, nel 2010 con poco più di due mesi di consolidamento integrale dell'Argentina la quota estera era risalita al 27,2% con l'obiettivo di arrivare al 36% nel 2013. La svolta è stato l'accordo con la famiglia Werthein che ha accettato di scendere al 42% in Sofora, permettendo a Telecom di conquistare la maggioranza al 58% della scatola che, tramite la sub-holding Nortel, controlla il 54,7% di Telecom Argentina, una compagnia redditizia (circa 1 miliardo di euro di Ebitda) e completamente libera da debiti. Ma l'operazione va completata se la si vuole sfruttare anche per il miglioramento del merito di credito e ridurre così i costi di finanziamento. Occorre cioè convincere le agenzie di rating, le quali pretendono almeno il 30% di interessenza azionaria per cominciare a ragionare. Un mese fa Telecom ha già fatto un passo in questa direzione, acquistando dalle minoranze di Nortel un quantitativo di azioni che le consente di aumentare la quota indiretta in Telecom Argentina al 18,3%. Ma ancora non basta. Dovrebbe continuare su questa strada. Oppure, per tagliar dritto al traguardo, Sofora dovrebbe rilevare tutte le minoranze di Nortel: in questo modo Telecom Italia potrebbe salire in trasparenza fino a oltre il 30%. Ne varrebbe la pena, se il costo non supererà di troppo il mezzo miliardo.

Infine il debito. Se si guarda il totale, la montagna è ancora lì, sempre fastidiosamente superiore ai 40 miliardi. Solo nel 2010 si è riusciti finalmente a darci un taglio, con una riduzione di 2,5 miliardi che sarebbero stati quasi 3 se non si fosse presentato all'incasso il pasticcio Sparkle. La volata finale nell'ultimo trimestre è stata tirata dall'America Latina con il benefico effetto dell'ingresso dell'Argentina nel consolidato e il regalo di 600 milioni di imposte pregresse recuperati dal Brasile.
Il management – che considera ora normalizzata la situazione anche sotto il profilo fiscale (basta sovrattasse e sanzioni straordinarie) – conta di poter disporre almeno di due miliardi all'anno di qui in avanti per abbassare il debito. Anche così però ci vorrebbe un ventennio per abbatterlo del tutto. Nessun direttore finanziario vorrebbe davvero arrivare a tanto. Per non sentirsi a disagio, basterebbe allineare il rapporto indebitamento netto/Ebitda a quello dei concorrenti. Con il contributo di Telecom Argentina, contabilmente il parametro è già sceso a 2,75 volte, ma bisognerebbe scalare almeno sotto 2,5. Rispetto ai competitor, Telecom resterebbe comunque svantaggiata, perchè il suo debito non è frutto di un virtuoso percorso di sviluppo, bensì eredità pesante del prezzo del controllo che il gruppo ha dovuto pagare a partire dalla maxi-Opa del '99. Solo un paio d'anni prima, Telecom era stata consegnata al "nocciolino duro" dei blasonati soci privati con il lascito di un patrimonio netto tangibile di oltre 15 miliardi e un debito limitato a 10 miliardi.

Quello di oggi è un debito che pesa, perchè nonostante il costo contenuto (mediamente intorno al 5,2%), gli oneri finanziari netti si mangiano via quasi l'8% dei ricavi. Oltretutto le prospettive dei tassi d'interesse sono al rialzo: solo sulla parte a tasso variabile, 2 punti di rialzo del costo del denaro equivarrebbero a 1 punto di fatturato. Bisognerebbe proprio dargli una bella sforbiciata. Tanto più se si considera che la mole degli intangibles – alimentata dagli avviamenti sempre a rischio impairment – sfiora i 50 miliardi: per portare alla parità il rapporto tra debiti finanziari e il patrimonio netto tangibile occorrerebbero 20 miliardi di mezzi freschi.
Dismissioni rilevanti da fare non ce ne sono più: non è dalle cessioni che arriverà un aiuto. L'aumento di capitale è un'eventualità che finora il management ha sempre scongiurato, e da solo, senza interventi straordinari, il piano promette di abbassare il rapporto net debt/Ebitda a poco più di 2 nei prossimi anni. Ma forse una ricapitalizzazione si renderà inevitabile in futuro se si vorrà dare un colpo d'ala alle prospettive di crescita del gruppo. Telecom sul mercato domestico, maturo e ferocemente concorrenziale, non può più crescere, soprattutto non può più crescere senza lo sviluppo della rete ultraveloce, che richiede investimenti ma che a regime contribuirà ad abbassare i costi.

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