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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2011 alle ore 06:45.

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«L'anno prossimo lanceremo la 500 elettrica sul mercato americano, e perderemo 10mila dollari ogni auto prodotta e venduta lì. Figuratevi se dovessimo esportarla verso l'Europa». Tra i manager del settore, Sergio Marchionne resta uno dei più scettici rispetto alla propulsione a batterie nella quale tutti i concorrenti, volenti o nolenti, hanno investito.
«La struttura finanziaria delle auto elettriche non sta in piedi» ha detto ieri. Non solo: «Le auto a batterie hanno dei limiti fisici per quanto riguarda le condizioni di esercizio». Perché allora lavorate anche voi sull'elettrico? La prima risposta è che «negli Usa ci sono degli incentivi legati allo sviluppo di veicoli a emissioni zero». Non va dimenticato che Chrysler è in trattativa con il Department of Energy - il ministero dell'Energia Usa - per un prestito da 3 miliardi di dollari legato alla ricerca sulle tecnologie a basso impatto ambientale. Dal punto di vista del business, poi, «la 500 elettrica ci serve a sviluppare tutte quelle tecnologie che utilizzeremo sui modelli a propulsione ibrida». Quando arriverà il primo? «Lo vedrete al prossimo Salone di Detroit, nel gennaio 2012. Sarà un modello di grandi dimensioni, dove il prezzo può giustificare l'investimento».
In tempi brevi, secondo Marchionne, è «molto meglio puntare su tecnologie già sperimentate come il metano (di cui Fiat è uno dei leader mondiali) e sul miglioramento dei motori a benzina e diesel. Se l'intero parco auto degli Stati Uniti andasse a metano, gli americani potrebbero alimentarlo per cent'anni con le loro riserve nazionali di gas».
E la Renault, che dice di aver investito 4 miliardi di euro sull'auto a batterie? «Ognuno fa le sue scelte strategiche. Spero che il mio amico Carlos Ghosn abbia altri fondi da investire in tecnologie alternative. Ma si ricordi che la scelta di Renault deriva anche dall'ampia disponibilità in Francia di energia elettrica prodotta da centrali nucleari, che non c'è né in Italia né in America». È vero dunque, come ha scritto qualcuno, che il recente incidente nucleare in Giappone potrebbe dare il colpo di grazia al nascente mercato dell'auto elettrica? «Non sono così categorico - dice il manager -, è soprattutto un problema di costi. Se non riusciamo a gestirlo in maniera intelligente, credo comunque che il futuro dell'auto elettrica sia in dubbio».
Il terremoto in Giappone e gli eventi successivi hanno già prodotto conseguenze pesanti sul settore auto locale. Ci sarà un impatto anche sul gruppo Fiat o su Chrysler? «Stiamo valutando le conseguenze per la catena dei fornitori. C'è un primo impatto sui colori delle auto, perché per alcuni tipi di pigmenti c'è un unico fornitore, appunto in Giappone. Ci sono poi le conseguenze sui fornitori di elettronica, soprattutto quelli di secondo livello. Questo potrebbe rallentare la produzione negli Usa, un po' meno in Europa e ancora meno in Brasile. Non si tratta di conseguenze permanenti: stiamo parlando di un possibile slittamento di produzioni tra una e tre settimane. È uno scenario in divenire».
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