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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2011 alle ore 07:46.
Gabriele Galateri di Genola appartiene ad una antica famiglia piemontese. Una nobiltà di provincia che, da Savigliano vicino a Cuneo, ha dato generali all'esercito e funzionari alla monarchia. Non importava che la dinastia regnante fossero i Savoia o gli Agnelli. Se lo si dimentica, è difficile capire il profilo di un uomo che si muove negli uffici della finanza e dell'industria con la riservatezza e la buona educazione di un diplomatico. E, i diplomatici del vecchio mondo, non potevano non avere una solida formazione giuridica. Una mappa mentale composta da regole, pesi, contrappesi, competenze e sfere d'azione.
Il management come punto di equilibrio fra quanto spetta a me e quanto tocca agli altri. Una visione radicalmente anticonflittuale, ma non da ignavi. Anche perché Galateri è stato allevato alla scuola del potere poco emotivo di Umberto Agnelli, di cui l'Avvocato diceva «per fare la finanza ci vuole l'intelligenza distaccata e fredda di mio fratello». E, di finanza, Galateri ne ha fatta molta. Dopo la laurea in legge e il master alla Columbia University, uno dei primi italiani a ottenerlo, ha lavorato al Banco di Roma (ironica nemesi geronziana), alla Saint Gobain, quindi in Fiat e in Ifil e in Ifi, le finanziarie degli Agnelli in cui Umberto si era impegnato dopo l'instaurazione dell'egemonia operativa di Cesare Romiti. Con Romiti Galateri ha sempre conservato un rapporto di correttezza e di cordialità. Molto buono quello con Gianluigi Gabetti, la mente finanziaria del gruppo e il primo consigliere della famiglia torinese. Galateri sperimenta un trauma vero nel 2002. È amministratore delegato della Fiat. In una cena a Villa Frescot, a cui partecipa anche la moglie Evelina Christillin, viene allontanato dall'Avvocato. È il periodo più duro. Torino conosce il deterioramento dei bilanci e il manager di estrazione Pirelli Giuseppe Morchio che vuole farsi azionista. Da un destino di rovina degno dei Buddenbrook, gli Agnelli si salvano grazie allo sconosciuto Sergio Marchionne. In quel momento il capitalismo italiano vive più di una discontinuità.
E, dentro al fortino di Mediobanca, nel 2003 l'estromissione di Vincenzo Maranghi è consumata dal blocco mercatista di UniCredit, neo-papalino di Capitalia e faziano (nel senso di Antonio) della Banca d'Italia. Maranghi non vuole nemmeno la liquidazione. Il prezzo è la continuità della scuola cucciana, che sarebbe poi tornata in cattedra in questi giorni nell'operazione Generali: Alberto Nagel e Renato Pagliaro capi operativi. Ancora una volta, nel complesso gioco a scacchi del potere e delle competenze, dei silenzi e delle decisioni, Galateri è scelto come presidente. Lo resta fino al 2007, quando prenderà il suo posto il tutt'altro che sabaudo Cesare Geronzi. A quel punto, nella giostra che gira del capitalismo italiano in condizione di perenne emergenza, viene chiamato alla presidenza di Telecom anche grazie al network internazionale, tenuto vivo dalla frequentazione degli Alumni della Columbia che annoverano César Alierta, numero uno di Telefonica, azionista di Telecom.
In Telecom Franco Bernabè è dominus e Galateri rispetta bene i perimetri che gli vengono assegnati. Per un ex monopolista a cui spesso si imputa di avere smobilitato dai territori centralizzando tutto a Roma, il rapporto con gli enti locali è fondamentale. Come richiede il nuovo incarico, svolto secondo l'ideologia tutta piemontese e einaudiana del «lavoro ben fatto», Galateri vince la naturale riservatezza e inizia a girare come una trottola l'Italia. E, senza alcuna forma di affettazione e di superiorità, come un ufficiale del Regno di Sardegna incontra presidenti di provincia, assessori regionali, sindaci, dirigenti di assindustrie locali, responsabili delle camere di commercio.
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