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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2011 alle ore 07:49.

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È stato un colpo. Sembra che nessuno se l'aspettasse, tra gli investitori. Eppure gli Stati Uniti hanno un deficit vicino all'11% del Pil e un debito che a fine anno sfiorerà il 100 per cento. Sono le dimensioni di uno squilibrio che in un altro paese nessuno, sui mercati, accetterebbe senza obiettare e senza chiedere un adeguato premio.

Standard & Poor's, del resto è stata chiara: «Una preferenza globale per il dollaro Usa verso tutte le altre valute - ha detto - dà al paese una liquidità esterna unica». È quasi soltanto il privilegio di avere una moneta internazionale, quindi, a salvare l'economia Usa da conseguenze ben più gravi per le sue intemperanze.

Gli investitori sanno bene da tempo qual è la situazione. La decisione della S&P's sembra aver colpito più perché appare come un gesto iconoclasta di una presunta invulnerabilità, che per il suo vero significato economico, in fondo limitato: la stessa agenzia di rating attribuisce una probabilità del 33% di abbassare davvero il rating entro due anni.
Non sono quindi i pesanti accenti wagneriani da crepuscolo degli déi, quelli che si ascoltano a New York e Washington. È solo il trillo di una piccola sveglia, che interrompe il sonno (e il sogno) dogmatico non solo dei politici - che non possono più abbandonarsi a schermaglie preelettorali senza temere conseguenze - ma anche dell'intera business community. Qualcosa comincia, molto lentamente, a sfilare il cuscino su cui si era adagiato il sistema economico degli Stati Uniti, dinamico come pochi - e questa è la sua fortuna - ma un po' troppo compiacente con i propri squilibri.

I businessmen americani si sono sentiti a lungo protetti da una politica economica che poteva spingere fino in fondo, come nessun altro al mondo, la sua leva fiscale e quella monetaria. Tutti hanno, e avranno, bisogno di dollari, a cominciare dalle banche centrali straniere: li acquisteranno, li chiederanno in prestito, li parcheggeranno negli assets americani aumentandone il valore, abbassando i tassi d'interesse, alterando il prezzo per il rischio. Non è successo così anche prima della crisi finanziaria?

Quel cuscinetto da oggi è però un po' meno soffice. La Fed prima o poi dovrà interrompere gli acquisti di bond e alzare i tassi e al mondo solo il debito giapponese è più sensibile alle strette di quello americano. Ogni mossa di Ben Bernanke aumenterà gli oneri per un governo federale che non convince nessuno, per ora, quando dice di voler riportare ordine nei conti pubblici. L'Fmi ha calcolato, nel suo Fiscal monitor, che l'aumento di un punto percentuale dei rendimenti Usa aumenta il peso degli interessi sui conti pubblici di 1,25 punti nel 2016. Una quota minore ma rilevante di questo incremento riguarda il premio per il rischio: se dovesse aumentare - per esempio perché si sta erodendo la fiducia nella Casa Bianca - «i costi per il servizio del debito sarebbero anche più elevati». La novità è che ora nessuno potrà più illudersi di essere al riparo: può davvero accadere.

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