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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2011 alle ore 07:56.
La Consob ha le idee chiare: nel nostro Paese l'impulso allo sviluppo non potrà più venire dalla spesa pubblica, ma da una serie di fattori differenti fra i quali un ruolo di assoluto rilievo dovrà essere giocato dal risparmio privato. Peccato però che le famiglie italiane non siano assolutamente d'accordo e preferiscano – come d'abitudine – lasciare metaforicamente il denaro sotto al materasso piuttosto che impiegarlo in attività di rischio.
Il sondaggio contenuto nella relazione presentata ieri ed effettuato da Gfk Eurisko - Multifinanziaria Retail Market è per certi versi impietoso: la fotografia scattata a fine 2010 mostra che 8 italiani su dieci non ne vogliono sapere di azioni, obbligazioni, fondi di investimento o polizze. Di conseguenza lasciano i propri averi a languire in banca, o tutt'al più li impegnano nel risparmio postale o nei titoli di Stato a breve scadenza. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, perché il feeling tra gli italiani, la Borsa e gli altri asset rischiosi non è mai praticamente sbocciato. Il colpo di grazia, se così lo si può definire, è stato inferto dalla crisi finanziaria, che ha ulteriormente ridotto la fiducia: nel 2007 gli investitori retail che detenevano in portafoglio almeno un prodotto rischioso erano il 25%, alla fine dello scorso anno questa quota si era ridotta al 20 per cento.
Lo spaccato sulle categorie di strumenti finanziari detenuti offre spunti per certi versi interessanti. Per esempio si scopre che è in crescita la percentuale di famiglie che possiedono obbligazioni bancarie (da 8,9% al 10,5%) ed è anche in aumento del 10,2% l'esposizione verso prodotti strutturati (da 199,3 a 212,8 miliardi di euro fra bond, certificati, fondi e polizze). Un dato che la stessa Consob addebita in parte «alla scarsa diffusione del servizio di consulenza», aprendo così un nuovo fronte di discussione.
Sulle difficoltà della consulenza hanno infatti senz'altro influito fattori quali la «riduzione della fiducia nel sistema finanziario e l'aumento dell'avversione al rischio», come nota l'authority. Se è vero che nel corso del 2010, in base al sondaggio Gfk Eurisko, la quota degli investitori retail che ha usufruito dei servizi di advisory è scesa all'8% (dal già magro 10% del 2007) e che la percentuale di famiglie che hanno preso le decisioni di investimento senza alcun supporto da parte degli intermediari finanziari è salita al 25%.
È anche vero che spesso sono le stesse famiglie a rifiutare la consulenza perché ritengono che sia viziata da conflitti di interesse (il 21% lo pensa) oppure che il servizio abbia un basso valore aggiunto (solo il 10% si ritengono soddisfatte dei consigli, era il 38% nel 2007). Quasi la metà degli investitori retail, infine, non è disposta a pagare commissioni per il servizio. Poca voglia di rischiare, dunque, e spazio soprattutto al fai-da-te. (Ma.Ce.)
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