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Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2011 alle ore 14:48.

Con questo articolo inizia la collaborazione con il Sole 24 Ore Guido Rossi, professore emerito all'università Bocconi, padre della legislazione antitrust e garante etico della Consob
In un famoso discorso, tenuto a Monaco il 28 settembre 1921, Walther Rathenau, il grande industriale-intellettuale tedesco che qualche mese dopo pur diventava anche ministro degli Esteri, dichiarava provocatoriamente: «L'economia è il nostro destino». Gli rispondeva polemicamente, tra gli altri, nel 1927, l'autorevole giurista-filosofo Carl Schmitt con un articolo intitolato "Il concetto di politico", dove rivendicava la priorità della politica, il cui «culmine può essere raggiunto anche partendo dall'economia» precisando peraltro che «non è possibile estirpare lo Stato e la politica e spoliticizzare il mondo».
La recente crisi economico-finanziaria, la peggiore nella storia mondiale, compresa la Grande Depressione (Bernanke), sembra aver dato più che mai ragione a Rathenau, ed avere indiscutibilmente portato l'economia del capitalismo finanziario in posizione di assoluta supremazia, al punto che, trascinata dal fallimento totale della sua fondante ideologia del "libero mercato efficiente e razionale" ha messo in crisi la stessa democrazia politica (Posner). Ciò è tanto più vero nel centro del sistema da cui è originata la crisi, che ha influenzato e trascinato le altre economie occidentali, cioè negli Stati Uniti, dove la Sovranità che impone oggi le (presunte) soluzioni alle crisi presenti e future, insomma il nuovo Leviatano, sta a Wall Street, più che alla Casa Bianca. Il denaro pubblico è stato abbondantemente usato, aumentando il debito dello Stato, soprattutto per salvare le grandi istituzioni finanziarie too big to fail, troppo grandi per fallire, ma rapidamente aumentate in dimensione dall'inizio della crisi.
L'ovvia conclusione è che quelle istituzioni sono tornate, sane e più grandi, a ridistribuire copiose prebende ai loro già ricchi manager. E così lo Stato è diventato a sua volta fragile. Fragilità che per ragioni diverse, alla periferia del sistema, ha portato gli Stati il cui debito è oggetto di selvagge speculazioni sui mercati finanziari, come la Grecia piuttosto che il Portogallo, al rischio di fallimento. Troppo piccoli per non fallire? Saranno comunque una volta ancora i centri del potere finanziario anche internazionali a decidere sul salvataggio, sulla povertà e sulla miseria dei cittadini di quegli Stati in decozione. Nell'economia finanziaria globalizzata sono dunque i suoi protagonisti a tutti i livelli di vertice ad essere il nostro destino.
È pur vero, si potrà obiettarmi, che la politica ha già preso molte iniziative, in diversi circuiti, per evitare nuove crisi e per proporre soluzioni anche a quella attuale, ben lontana dall'essere risolta. Mi basti ricordare qui, senza commento, che il Financial Stability Board, presieduto dal Governatore Draghi, ha proposto più di sessanta differenti riforme al G-20, mentre il Congresso degli Stati Uniti ha varato l'anno scorso ben duemilatrecento pagine di nuove regole – il Dodd-Frank Act – destinate, negli intenti, ad estirpare le cause della depressione. Tuttavia, la creazione ad hoc di nuove autorità di vigilanza, che insieme a quelle esistenti dovrebbero redigere e applicare gran parte della nuova normativa, non pare riforma né innovativa né efficace.
La ragione è che il tutto è stato demandato alla Federal Reserve, la Banca centrale americana, e alle altre esistenti autorità indipendenti, cioè a tutti quei controllori che hanno teorizzato e sostenuto l'ideologia del mercato efficiente e predicato (Greenspan) che i derivati di ogni tipo non dovevano essere assoggettati ad alcuna norma giuridica, ma lasciati scorrazzare liberi da ogni controllo nei pascoli degli opachi mercati finanziari. Sicché tutto sta continuando come prima e a Wall Street sembrano presentarsi all'orizzonte nuove bolle speculative sui valori spropositati di alcune società operanti nei social network.
È così che il potere delle banche e degli altri istituti finanziari, che hanno creato ricchezze sul debito, trasformato gli immobili in mobili, in un processo economico ridotto sempre più a circuito monetario, è stato posto al vertice operativo della gerarchia del mercato. La sua forma a piramide che vede in posizioni sottostanti e via via subordinate: le imprese, i consumatori, i risparmiatori, i lavoratori e infine i cittadini, in progressiva asfissia di benessere economico. Mentre la responsabilità delle Banche centrali e delle altre autorità non è ancora stata chiarita, sicché ad oggi alle grandi banche "too big to fail" corrispondono i loro controllori "too sovereign to be sued", ossia troppo sovrani per essere trascinati in giudizio. Dunque, in definitiva, nessun responsabile.
Tale asfissia è pure accaduta in Italia, benché la sostanziale mancanza di un vero mercato finanziario, mai sviluppato, abbia preservato, salvo qualche pur rilevante scimmiottamento, le banche nostrane dalle rischiosissime frenesie operative di altri istituti finanziari, esposti a distratti controlli o addirittura riparati nell'ombra (le "shadow bank"). Un sistema bancocentrico, come il nostro, nel quale il mercato dei capitali esiste solo ai livelli marginali, è tuttavia imbrigliato in un circuito di scarso sviluppo economico, dove i conflitti d'interesse, ormai regola e non eccezione, sono talmente inseriti e protetti nel sistema da minacciarne a loro volta la stabilità stessa.
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