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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2011 alle ore 06:52.
I risparmiatori sono un po' disorientati, e non hanno neppure tutti i torti per esserlo: per anni gli Exchange traded fund, meglio noti con l'acronimo Etf, sono stati osannati come uno degli strumenti di investimento più trasparenti ed efficienti e confrontati inevitabilmente con i più opachi fondi comuni.
Da qualche settimana a questa parte sono invece finiti nella lista dei sospetti e sembrano diventati i principali candidati a succedere ad Abs, Mbs, Cdo e diavolerie simili fra gli asset «tossici», assolutamente da evitare.
La verità, come spesso accade, sta nel mezzo: gli Etf non sono né angeli, né demoni e spiegare dove sta il nocciolo della discussione può essere utile per mettere a fuoco il problema. Gli Etf sono dei veri e propri «cloni», fondi gestiti in modo passivo che replicano fedelmente un indice azionario, obbligazionario, monetario, sulle materie prime o sulle valute. In origine venivano costruiti riproducendo fisicamente il sottostante, acquistando cioè direttamente i titoli o gli strumenti che compongono il paniere in misura proporzionale al loro peso.
Ma il successo ha portato con sé la moltiplicazione di nuovi strumenti di questa categoria: sono così sorti Etf sempre più complessi, a leva, short, perfino strutturati. Per stare al passo con una gestione sempre più complicata (e anche per risparmiare sui costi), gli emittenti hanno a poco a poco iniziato a sostituire gli Etf «fisici» con quelli «sintetici». Questi ultimi acquistano titoli (non necessariamente legati al sottostante che si vuole riprodurre) e per replicare il valore dell'indice di riferimento stipulano con una banca di investimento un contratto swap in base al quale la controparte si impegna a pagare la performance effettiva realizzata dall'indice di riferimento.
Ed è proprio verso i rischi insiti in questa componente derivata degli Etf (che non può superare il 10% del patrimonio complessivo di ciascun singolo strumento) che il Financial Stability Board presieduto da Mario Draghi ha puntato il dito. L'appunto ha ovviamente un suo fondamento, perché nel caso di insolvenza del soggetto con cui si è stipulato lo swap anche l'investitore rischierebbe di perdere fino al 10% di quanto investito.
Fare di tutta l'erba un fascio e battezzare automaticamente gli Etf asset tossici sarebbe però errato, oltre che ingeneroso. Prima di tutto perché i «cloni» sintetici sono soltanto una parte di quelli quotati (il 69,4% come numero di fondi presenti a piazza Affari e il 48,8% in termini di masse gestite) e più in generale perché, sotto l'aspetto dei controlli, tra gli inafferrabili derivati (scambiati over-the-counter) e gli Etf trattati in Borsa e sottoposti alle maglie regolamentari degli organismi di supervisione la differenza è abissale.
Il problema è comunque reale, e lo dimostrano gli emittenti quando corrono a inserire maggiori garanzie o più controparti negli Etf sintetici, oppure iniziano a pubblicare i titoli detenuti nei portafogli degli strumenti. Il rischio, per loro, è di lasciarsi sfuggire la gallina dalle uova d'oro: un mercato che soltanto nel 2010 è cresciuto a livello globale del 28% a 1.482 miliardi di dollari. (Ma. Ce.)
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