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Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2011 alle ore 07:56.

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È possibile tagliare le unghie alla speculazione sull'Italia agendo sul mercato dei credit default swap? Il dibattito è aperto sia tra le banche italiane, che hanno un interesse in quanto esposte direttamente al rischio Italia, sia a livello valutativo-propositivo in sedi istituzionali. «Bisognerebbe mettere i margini sui cds - osserva un banchiere italiano - così si speculerebbe comunque, ma almeno mettendoci i soldi». L'idea non è stravagante ma si scontra con la difficoltà di attuarla in un mercato che si è sviluppato, senza confini nè regole, su strumenti che hanno perso da anni la loro connotazione assicurativa.

È infatti dal 2003-2004 che i volumi over the counter mossi dai cds ha superato il quantitativo dei bond sul mercato. «È da allora che il cds da prodotto 'assicurativo' si è trasformato in puro derivato», spiega Paolo Tradati, responsabile di strutturazione e distribuzione di prodotti finanziari di Banca Akros e autore di un libro, fresco di stampa, sull'argomento. All'inizio il contratto di credit default swap prevedeva - in caso di mancato pagamento degli interessi o del capitale da parte dell'emittente - che chi aveva comprato la protezione consegnasse alla controparte che gliela aveva venduta il titolo-carta straccia ottenendone il valore nominale. Ma da quando il numero dei contratti cds è diventato un multiplo degli strumenti di debito sottostanti, la consegna fisica è caduta in disuso a favore del regolamento per contanti.

Oggi sugli emittenti italiani, spiega Tradati, il mercato dei cds è relativamente limitato per quanto riguarda i corporate - ci sono solo grossi gruppi come Fiat, Telecom, Eni, Enel o Finmeccanica -, più consistente sulle banche che hanno grandi esigenze di finanziamento e molto attivo sul debito sovrano che, per dimensioni, è uno dei più grandi e liquidi al mondo. Per avere un'idea, il volume dei cds sui BTp si misura in un multiplo dell'ordine delle migliaia rispetto al sottostante. C'è una logica: prendere posizione contro è più facile comprando i cds piuttosto che vendendo i titoli. Perchè comprare è sempre più facile che vendere e per vendere, di regola, bisogna avere i titoli.

Regolamentare questo mercato avrebbe il vantaggio di rendere gli scambi più trasparenti e forse più 'controllabili'. Ma il punto è che, in assenza di provvedimenti estesi almeno all'eurozona, ogni iniziativa avrebbe scarse chance di successo. Giorni fa, per esempio, si era diffusa la voce che le banche greche stessero vendendo cds su emittenti ellenici. Sull'Otc ovviamente la cosa non è accertabile, ma gli addetti ai lavori ci credono poco. Se fallisse la Grecia o una banca greca ci sarebbe un effetto contagio: nessuno comprerebbe la 'polizza' a copertura di un rischio da chi è esposto al rischio stesso. Così, se mai si riuscisse a creare un mercato regolamentato dei cds sul debito sovrano in Italia, nessuna banca francese o britannica si rivolgerebbe a banche italiane perchè non proteggerebbe un bel nulla e nessun intermediario estero vi opererebbe per rinunciare alla flessibilità, e diciamolo pure, alle aree-grigie dell'over the counter.

In teoria la febbre dei cds si trasmette ai bond e, con il conseguente aumento dei tassi, abbassa le stime sulle azioni scaricandosi anche in Borsa. Aggredire la febbre all'origine potrebbe perciò avvantaggiare tutta la catena. Ma siamo sicuri che gli strumenti finanziari non reagiscano tutti allo stesso input? Nel putiferio che si è scatenato sui mercati a inizio settimana, pare che il giochino preferito fosse vendere (meglio se allo scoperto) BTp per comprare Bund. A scommessa vinta, le posizioni speculative si sono chiuse ricomprando i titoli del Tesoro e rivendendo i bond tedeschi. Con la differenza, rispetto a prima, che ora c'è qualcuno che potrebbe essere tentato di ripuntare almeno una parte dei facili guadagni su una nuova scommessa.

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