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Questo articolo è stato pubblicato il 21 luglio 2011 alle ore 08:18.

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I mercati chiedono sicurezza. Persino con un po' di ansia, perché in giro, di "porti" al riparo dalle tempeste, ce ne sono pochi. Con questo schema è possibile interpretare - lo fa per esempio Ricardo Caballero dell'Mit - la storia recente dei mercati finanziari. Compresa la crisi, e compresi gli ultimi paradossi.
I bassi rendimenti americani, per esempio. Il Paese sembra sull'orlo di un default tecnico.

Se i giochini politici tra i repubblicani e il presidente Barack Obama dovessero davvero sfuggire di mano ai protagonisti, il 2 agosto il Paese non sarebbe più in grado di onorare i suoi impegni. Le agenzie di rating hanno lanciato i loro allarmi, peraltro ridondanti perché la situazione è nota a tutti, e ampiamente dibattuta; e anche la Federal Reserve, nell'ultimo rapporto al Congresso, ha dovuto riconoscere che l'eventualità è concreta.

Gli investitori non credono però che il gioco sarà spinto fino alle estreme conseguenze. Sanno che, nei grandi negoziati, la massima tensione, dai tratti sempre più teatrali, si raggiunge poco prima dell'accordo finale. I rendimenti americani - pur "guidati" con mano amorevole dagli acquisti della Banca centrale - sono così in linea con quelli, affidabilissimi, dei Bund tedeschi. Il ruolo internazionale del dollaro, che costringe tutti a dar credito agli americani, fa il resto.

C'è sicurezza, insomma. «Finora i partecipanti al mercato non sembrano aver dato un prezzo alle probabilità di un default tecnico», ha spiegato la Fed, la quale ha aggiunto come siano rimaste ben accolte anche le offerte in asta, malgrado un minore entusiasmo da parte degli stranieri. «La domanda per i titoli del Tesoro ha continuato probabilmente a essere sostenuta dalla rafforzata domanda di asset relativamente sicuri e liquidi, alla luce dei problemi fiscali di alcuni Paesi europei», ha sottolineato.

La cosa incuriosisce, perché le previsioni sul debito Usa sono fosche: secondo il Fondo monetario internazionale, l'esposizione del settore pubblico allargato, pari al 61,1% nel 2006, passerà dal 99,5% previsto per fine al 111,9% del 2016. Non è il livello italiano, né quello della fortezza (finanziaria) giapponese, ma è comunque elevatissimo. Anche se la capacità dell'economia americana di risvegliarsi all'improvviso, innovando e rinnovandosi, è una garanzia molto forte.

Non tutta Eurolandia può fornire le stesse credenziali, e offrire le stesse sicurezze. Lo scenario complessivo che ha davanti (un debito pari all'87,7% che potrà scendere all'86,3% nel 2016) nasconde un'impasse politica forse meno "drammatica" del confronto americano, ma molto frustrante per gli investitori; e realtà sottostanti radicalmente diverse, che vanno dalla vivacità alla sclerosi, i cui destini sono però legati. Preoccupano, si sa, la Grecia sull'orlo del default e l'Irlanda e il Portogallo in bilico mentre la terza e la quarta economia dell'area, Italia e Spagna, sono accomunate (dagli spread sui titoli di Stato) in un giudizio non lusinghiero, ma meritato, sulle loro capacità di recupero.

Per l'Italia, cullata dal desiderio che nulla cambi mai, il risveglio nei giorni scorsi è stato scioccante, ma gli investitori hanno solo trasferito nei prezzi, in un momento politicamente critico per il Paese, una valutazione corretta delle sue potenzialità. È vero: Roma non è Atene, e questo i mercati lo sanno. Come hanno (tecnicamente) dimostrato su voxeu.info Paolo Manasse e Giulio Trigilia «il mercato pensa che l'Italia non è perduta», a differenza della Grecia. Anche se i rischi appaiono concentrati nel breve termine.

In poche parole, non c'è tempo da perdere. Non solo in Italia; e la risposta tocca alla politica. È a lei che gli investitori guardano - dove altrove? si parla di bilanci statali... - per capire cosa può accadere, ed è lei che detta l'umore dei mercati. Negli Stati Uniti come in Eurolandia, il gioco di spostare i debiti (dalle spalle piccole delle banche a quelle più robuste dei Governi e delle banche centrali, per esempio) è giunto al capolinea. Ora bisogna trovare il modo di rimborsarli, aumentando la capacità di generare reddito. Non è cosa facile né indolore, nell'immediato; ma l'alternativa è il collasso.

Anche i cittadini possono comunque dare una mano: quelli americani sono molto consapevoli di cosa accade quando lo Stato s'indebita; anche se gli esiti attuali - il Tea party, per esempio - possono apparire un po' folcloristici e risultare troppo radicali per essere davvero di aiuto. In alcune parti di Eurolandia, invece, questa coscienza - e il desiderio di rimboccarsi le maniche - è molto meno forte; meno potente è quindi la pressione sui politici. E i mercati lo hanno capito benissimo.

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