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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2011 alle ore 09:37.

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In meno di 11 anni, si sono viste due recessioni ed entrambe indotte dal crollo dei mercati finanziari: principalmente da quelli del credito nell'ultima cruenta, «grande contrazione», per usare la terminologia di Kenneth Rogoff; da quelli azionari o, meglio, dei titoli tecnologici (oltre all'eccesso d'investimenti), nella mini recessione del 2000-2001.

A giudicare dal nuovo linguaggio della Fed e dalle inusitate misure monetarie intraprese tre giorni fa, se ne starebbe preparando una terza e anche questa generata dal debito (quello sovrano stavolta). È più probabile che la decisione di Ben Bernanke di tenere i tassi a zero per due o tre anni si riveli in tutta la sua pretestuosità. Ma quel che s'è visto ieri sui mercati, soprattutto per le banche francesi, potrebbe preludere a una pericolosa perdita di fiducia tra gli operatori e a una sorta di nuovo credit crunch (contrazione del credito).

Se ne sono viste le avvisaglie su SocGen e Bnp. Non diversamente dal 2008, i titoli bancari francesi sono stati bersagliati dalle vendite e dalle voci di presunte, gravi difficoltà finanziarie. La notizia che alcune banche asiatiche avrebbero tagliato o chiuso i prestiti agli istituti transalpini ha gettato nel panico gli investitori e richiamato un buon numero di speculatori. Quando un titolo, come SocGen, oscilla ripetutamente tra un +9 e un -9% nella concitazione creata dalle voci, significa che la mano dei ribassisti s'è fatta pesante. Ma la cosa più grave è che, vere o false che siano le voci di eventuali difficoltà, SocGen o Bnp non riescono più a trovare denaro sul mercato interbancario. Per fortuna la Bce è oggi un po' più attrezzata di quanto fosse tre anni fa ed è probabile che le banche francesi (e forse non solo quelle) si siano finanziate al piuttosto oneroso tasso del 2,25%, come dimostrano i prestiti overnight balzati mercoledì sera a 4,1 miliardi di € (dai 2 milioni del giorno prima).

I problemi delle banche francesi parrebbero per il momento isolati. In Italia, ci dice il tesoriere di un grande istituto, tensioni sull'interbancario non si sono ancora viste. Ma i segni che la situazione sta peggiorando nell'area euro sono nell'aria da giorni. Il costo dei credit default swap sui bond a miglior rating è volato a 153 punti, il massimo dal 12 aprile 2009: un livello non lontanissimo dai 218 punti del dicembre 2008, al culmine della crisi seguita al fallimento di Lehman e al default di fatto di alcune tra le maggiori istituzioni internazionali. Il costo dei Cds ad alto rendimento è a 652, come nel luglio 2009 (il picco fu di 1.138 nel marzo 2009). Inoltre, l'indicatore che misura il funzionamento del mercato interbancario è volato a 46 punti, come nel maggio 2010 quando esplose la crisi greca (il record di 113 è ancora del marzo 2009), segnalando che sta diminuendo la propensione delle banche a prestarsi denaro.

Non è ancora il credit crunch, poiché le esitazioni tra gli operatori istituzionali non stanno per ora condizionando i prestiti alle imprese e alla clientela. Ma il confine tra la prudenza e la paura è talvolta sottile e facilmente intaccabile, quando viene meno la fiducia tra gli operatori. Non è la liquidità che fa difetto al sistema. Anzi ce n'è fin troppa, specie negli Stati Uniti, dove il tasso overnight è sceso fino a pochi centesimi. Il timore è che tutta questa liquidità, compresa quella accumulatasi nelle ultime settimane con i disinvestimenti dalle attività a rischio, finisca per essere trattenuta.

Per questo appare sempre più un azzardo la decisione della Fed di congelare i tassi d'interesse per «almeno due anni»: una misura che rischia di minare la già fragile fiducia dei mercati che ora s'interrogano sui tempi e sui modi di una possibile e incombente recessione. La decisione di Bernanke è forse peggiore di un nuovo quantitative easing che, quanto meno, crea distorsioni di breve periodo. Si potrebbe dire che così facendo la Fed si stia servendo di "armi improprie" che finiscono per mettere in difficoltà le altre banche centrali e le economie dei Paesi europei, del Giappone e degli emergenti.

Franco Bruni, docente di economia monetaria all'università Bocconi, fa notare come, dopo le pesanti manipolazioni dei mercati da parte delle banche centrali e della Fed in particolare, le valute non stiano più reagendo in maniera razionale. «Oggi le reazioni alla politica monetaria arrivano dai tassi d'interesse». Come se i rendimenti, specie quelli dei titoli di Stato, sopperissero al mercato dei cambi.

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